LA VALLE DAL NOME GENTILE
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“S.P. 20 “Val Fiorentina” 1°stralcio”. Così recitava la scritta riportata sull’etichetta bianca incollata sul faldone rosso con i lacci. Che spesso dimorava sulla sedia vicino alla porta del salotto. Dentro al voluminoso faldone c’erano le carte che riguardavano il cantiere della strada in costruzione che doveva congiungere Caprile a Selva di Cadore. Era un cantiere piuttosto importante che papà seguiva nella prima metà degli anni ’80 e a me piaceva il nome di quella strada. Val Fiorentina: era un nome gentile, aggraziato. Conoscevo Caprile, ma non sapevo dove si trovasse di preciso questa strada che doveva portare in un luogo dal nome tanto bello. E chissà cosa voleva dire la parola “stralcio”. Poi arrivò una calda giornata agordina di mezza estate e dopo pranzo, a sorpresa, papà ci disse che ci avrebbe portato a vedere il cantiere della strada che conduceva alla “Valle dal nome gentile”. Scottavano i sedili in simil-pelle nera della 127 color del cielo che rombava grintosa lungo la salita del Masaré. Ed io, in pantaloncini corti, dovevo tenere le gambe un pò sollevate per non bruciarmi le cosce. Appena prima di entrare a Caprile papà rallentò, mise la freccia a destra ed imboccò la strada in costruzione che diventava subito sterrata. E la valle, nonostante il nome sereno, in realtà si presentava piuttosto severa. Di gentile, in quel luogo, c’era solo il limpido colore dell’acqua del torrente che dava il nome alla valle. Che poi, a volte, tanto gentile non era nemmeno lui visto che vent’anni prima aveva disintegrato l’intera vallata. Entrammo subito nella prima galleria che aveva i portali moderni in cemento armato di una forma strana, completamente diversi da quelli della galleria “delle Anime” che era più vecchia. Poi, superato il corto tunnel, la pista di terra e sassi saliva in lieve falsopiano formando delle curve sinuose. La 127 saliva decisa, ringhiava il motore in seconda e si ballava parecchio sui sassi, ma lei proseguiva imperturbabile lungo lo sterrato segnato dalle “rodere” dei camion. Il ponte che attraversava il torrente era asfaltato e per pochi secondi non si sobbalzava più e poi ricominciava nuovamente la danza sui sassi e la salita si faceva più decisa. Giunti prima delle gallerie ci fermammo, e di gentile in questo punto non c’era davvero più nulla. Qui era cantiere vero e lavoro duro. Il delirio geologico della valle esigeva lavori importanti e complicati. In alto, sopra la galleria in costruzione, si innalzava una parete completamente rivestita di calcestruzzo, consolidata con travi e pilastri in cemento armato e tenuta insieme da decine di tiranti. Che chissà cos’erano questi tiranti. Collocata sulla parete c’era la statua di Santa Barbara a proteggere chi lavorava in quell’ambiente difficile. I ponteggi salivano lungo la parete alta decine di metri e gli operai abbronzati sembravano operose formiche che lavoravano sospese nel vuoto. E urlavano e vibravano i compressori piazzati in fila sul bordo della pista di cantiere facendo vibrare i cofani alettati, ed i tubi dell’aria compressa parevano lunghi serpenti neri sdraiati su quella terra arsa dal sole. E cigolare dei cingoli degli escavatori e battere incessante dei martelloni. Ogni tanto arrivavano le betoniere guidate da uomini a torso nudo che cambiavano marcia in continuazione. E chissà dove portava la strada dopo le gallerie. Lo scoprìì in un’altra occasione quando, invece di imboccare il ponte, prendemmo la vecchia strada sterrata che saliva lungo il torrente. Ad un certo punto un passaggio permetteva di raggiungere una ripida rampa aldilà dell’acqua. Fu in quel momento che scoprìì che le gallerie erano due e che il lavoro in galleria è lavoro davvero duro. C’era polvere ed il frastuono dei macchinari amplificato dal tunnel. Folate d’aria fresca e luci di torce elettriche che si muovevano nell’oscurità. Ed anche lì la valle si mostrava severa. Verso la metà di novembre ritornai alle gallerie e quel pomeriggio avanzammo un pò verso nord. C’era un’atmosfera malinconica di quasi inverno. Con la terra ghiacciata e chiazze di neve. E c’era freddo. La valle era cupa ed il cantiere era ormai chiuso per l’ultima pausa invernale. I lavori infatti volgevano al termine anche se ai miei occhi inesperti il tutto pareva ancora in alto mare. A primavera inoltrata l’opera fu finita e terminò pure la vita terrena della 127 color del cielo dopo ben diciassette anni di onorato e fedele servizio. E fu un momento di autentica commozione quando la lasciammo parcheggiata nel piazzale dietro l’AutoPiave di Belluno. Sempre rimpianta e mai dimenticata. Ad inizio estate tornammo nella valle. E trovai tutto diverso e perfetto. C’era l’asfalto nero e lucido, i guard-rail lucenti e le nitide righe bianche della segnaletica. E c’era pure la Panda 750, anch’essa bianca e nuova. Che però saliva con meno grinta lungo lo snodarsi di curve e gallerie. Finalmente quel giorno potevo scoprire dove conduceva la strada provinciale. Dopo l’Aiva trovammo i tornanti, il percorso era più ripido e ci alzavamo in fretta dal fondovalle. Il paesaggio iniziava ad aprirsi ed improvvisamente ci accolse la sagoma della bella chiesa di San Lorenzo. Eccola finalmente la “Valle dal nome gentile”!! Il paesaggio era davvero spettacolare: a sinistra il paese di Colle Santa Lucia che appariva uguale a come lo vedevo sui poster della Provincia che avevo a casa. A destra, in fondo alla valle, troneggiava il Pelmo. Ed era grandioso, quasi come il Civetta che potevo ammirare dalla piazza di San Tomaso. Un piccolo fuori programma ci condusse fino alla chiesa di Santa Fosca. Era un incanto la “Valle dal nome gentile” in quel caldo pomeriggio d’inizio estate. Mentre percorrevamo la strada a ritroso verso Selva, pensavo che Val Fiorentina era un nome veramente perfetto per un luogo così bello. Un nome musicale, sereno e solare, gentile come il verde dei prati che salivano fino a lambire le scure montagne sopra alle varie frazioni. Poi tornammo a Cencenighe e la “Valle dal nome gentile” non la scordai mai più…Magiche Dolomiti!!