di Renato Bona
Secondo un proverbio cinese, “le parole devono essere come le perle: rare e preziose”. A mio modesto avviso, l’introduzione di Franca Bimbi al libro “di donna in donna il quotidiano femminile nel Cadore di ieri” – soprattutto per l’epoca in cui fu stesa (luglio 1993) – è un’autentica perla. Per dirla con le parole della docente di sociologia della famiglia all’Università di Padova nonché presidente della Commissione regionale per la realizzazione delle pari opportunità tra la donna e l’uomo, e due volte parlamentare: “Il lavoro che presentiamo ha prima di tutto il senso di una restituzione a noi stesse, oltre che alle donne delle generazioni più anziane. Con esso si allude alle forti dinamiche di cambiamento che le donne hanno immesso nella società italiana contemporanea, ma anche vi è l’implicito riferimento ad una genealogia femminile. Le donne… hanno rappresentato per le loro figlie un modello tradizionale dell’identità femminile: la donna deve essere moglie e madre, perché la sua identità sociale è iscritta nella capacità biologica di concepire, partorire, allattare, nutrire i piccoli dell’uomo. Si tratta di un modello del passato, che però ha interagito, almeno attraverso la memoria materna, con i processi di socializzazione anche delle più giovani tra le contemporanee”. Sottolineava quindi che “le ragazze e le bambine oggi sembrano vivere in un contesto di definizioni aperte dei modelli di identità sociale: esse appaiono centrare prevalentemente sulla realizzazione di sé: vivono la differenza sessuale con connotati positivi di valore; intendono la parità coi coetanei maschi legittimata anche a livello simbolico. Tuttavia guardando alle nostre spalle, emerge la continuità e discontinuità che formano il mandato intergenerazionale, da madre a figlia. Per mantenere la coerenza della propria identità biografica, le giovani rielaborano il passato delle nonne e delle madri nel presente della propria esperienza”. E proseguiva: “Le immagini che vengono presentare nostrano che non esisteva, per le generazioni più anziane, una distinzione tra il lavoro dei campi, esterno alla casa, ed il lavoro domestico, familiare e di cura degli altri. La ‘condizione femminile’ era accomunata dalla definizione di un’identità sociale esclusivamente orientata alla famiglia, alla maternità, alla dipendenza economica e sociale dall’uomo capo-famiglia. Ciò indipendentemente dal fatto che i lavori si svolgessero fuori o dentro le mura domestiche. L’immagine della donna-natura, tipica della società contadina, ci rimanda al secondo tema di quest’opera, sotteso quasi ad ogni immagine della fatica del lavoro femminile: essa si svolge all’ombra di una struttura patriarcale del rapporto sociale tra essi”. La conclusione della Bimbi: “… In questo lavoro, che è insieme di sociologia visuale e di storia orale, le immagini delle donne ci rimandano al fatto che esse non sono la parte debole, ma l’‘anello forte’ della società, poiché tengono insieme il lavoro e le relazioni familiari, la produzione dei beni e la distribuzione giusta delle risorse, anche all’interno di economie della povertà. Le donne più giovani riconoscono in queste immagini il debito verso quelle che le hanno precedute”. Nel sottotitolo “Il quotidiano femminile nel Cadore di ieri” del libro che stampato dalla cadorina Tipografia Tiziano di Pieve con fotocomposizione Aquarello ed il contributo della Cassa di Risparmio di verona, Vicenza, Belluno e Ancona, è stato patrocinato da: Regione Veneto, Provincia di Belluno, Magnifica Comunità di Cadore (ha impegnato nella raccolta e selezione dei testi Gloria Fiori e Ivana Burrei, nell’organizzazione espositiva Luisa Menegus, nell’organizzazione generale Giorgio Del Favero e Bortolo De Vido, oltre ai collaboratori Vittoria De Pra di Lozzo e Museo delle tradizioni popolari di San Vito, il tutto per il coordinamento di Mario Ferruccio Belli, con i materiali fotografici di: Magnifica comunità di Cadore, Biblioteca comunale di Lozzo, lo stesso Belli, Giovanni De Donà di Vigo, Giorgio Del Favero di Valle, Benito Pagnussat di Pieve, Famiglia Perini di Borca, Giuseppe Teza di Domegge) si esordisce specificando che: “Nascere donne in Cadore era una grande jattura. Per un motivo anzitutto psicologico: il maschio – secondo una radicata convinzione – continua la stirpe, il maschio è il segno della virilità del padre, il maschio porta il nome del casato. Seguivano poi i motivi economici; uscendo di casa, una femmina avrebbe impoverito la famiglia con i beni dotali, sia che si sposasse sia che entrasse in un convento, come era allora diffusa abitudine. Una femmina infine era una bocca in più per molti anni, fino al momento in cui poteva essere usata come strumento di lavoro, Si sarebbe preferito che, appena nata, fosse capace di mantenersi lavorando, invece occorreva ancora allevarla…”. E verso la conclusione descrittiva di questa intollerabile situazione ci si poneva l’interrogativo se le donne fossero felici, dandosi questa risposta: “Probabilmente sì, anzitutto per il fatto di essere sopravvissute. Infatti molte morivano, magari giovani, di parto, di stenti e di privazioni, altre ringraziavano la Provvidenza di aver lasciato loro il marito accanto, fino alla tarda età. La vedovanza era la disgrazia maggiore”. E verso la conclusione si sottolineava che: “Se nascere donne non era una fortuna, restare vedove da giovani era il peggior destino che potesse capitare. Tanto più triste quanto più numerosi erano i bambini da allevare. La loro realtà quotidiana era doppiamente faticosa e carica di privazioni e difficoltà visto che le occasioni di lavoro erano già rare per i maschi. Agli orfani allora non restavano aperte molte vie per sopravvivere e la migliore era quella dell’emigrazione. Così non meraviglia di imbattersi spesso in storie di ragazzi partiti a 13-14 anni per l’America. A volte lì trovavano un compatriota pietoso che prestava loro un po’ di protezione, più spesso erano abbandonati a se stessi vittime di tutte le violenze che si possono immaginare. D’altro canto non restavano alla vedova molte altre soluzioni per riuscire ad allevare i propri figli; neppure riducendosi a mendicare, giacché di mendicanti c’era allora grande abbondanza in tutti i paesi del Cadore. A queste generose donne è dunque dedicato il nostro lavoro”.
NELLE FOTO (Wikipedia e riproduzioni dal libro “di donna in donna”): la copertina della pubblicazione (l’immagine è riproposta all’interno); la prof. Franca Bimbi che ne curò la presentazione; affiancata da versi di Lucio Eicher Clere, l’immagine intitolata “Ti ho sempre atteso”; quella di una bimba; fontana abbeveratoio; scolaresca al femminile; donne al lavoro; fin da bambine si conoscono grandi fatiche; un giorno di festa; al pascolo col bestiame; tempo di fienagione; con mano leggera a cucire per un bambino; nuove generazioni cadorine; bucato per la famiglia; filando la lana si accudiscono i piccoli; un attimo per riposare e… sognare?