“MEDA GIORNADA A BELUN”
AUDIO
“…doman don fin dù a Belun…” Poteva accadere, una o due volte durante quelle estati trascorse a Cencenighe, di dover fare un salto nel capoluogo. Poteva essere per una commissione in qualche ufficio, un acquisto particolare o per recuperare qualche cosa a casa. Quasi una breve pubblicità nell’avvincente film dell’estate agordina. Di solito si scendeva in città il lunedì mattina quando papà iniziava la settimana lavorativa. Così ci si svegliava presto, si faceva una colazione veloce e, mentre la campana grande suonava le sette ci si avviava verso Belluno. Non c’era mai grande traffico sulla 203 ancora in ombra ed in macchina faceva quasi freddo con i pantaloncini corti. I sedili neri della 127 erano un prodigio di efficienza al contrario; gelidi d’inverno e bollenti d’estate. Ma era l’unico difetto che aveva la mitica auto color del cielo. In pochi minuti avevamo attraversato Agordo che stava per assistere all’arrivo del sole che di lì a poco avrebbe scavalcato il Castello di Moschesin. Dopo le curve di Ponte Alto la velocità di marcia aumentava e solamente al Ponte dei Castei si rallentava, ma nemmeno tanto. Da lì in poi il rombo del motore avrebbe coperto pressoché ogni forma di dialogo. Cantava allegra la 127 azzurrina lungo i rettilinei che portano verso La Stanga. Il tempo di ammirare i grandi prati di Candaten e in un baleno si era già al Peron. Dove il mondo incominciava a cambiare. Il sole inondava già la Valbelluna con i suoi raggi ed il Nevegal ed il Visentin erano coperti da una leggera foschia. A Chiesurazza si ritrovava l’estate e mamma diceva “…senti che raza de caldo che le qua…se fermon stamatina e dopo medodì tornon en sù…”. Guardavo l’avvicinarsi della città dal finestrino ed era tutto molto strano. Stavo andando in gita nella città dove in realtà abitavo. Così capitava che cogliessi qualche dettaglio nuovo che solitamente non notavo nemmeno. Una casa appena costruita, un negozio aperto da poco. Papà ci sbarcava a casa dopo appena mezz’ora di viaggio e se ne andava a lavorare. Io e la mamma, invece, dopo una breve sosta davanti alla casetta della posta, ci avviavamo verso il centro. La città d’estate viveva in una atmosfera ovattata. Poco traffico, persiane sbarrate e la sensazione che tanta gente fosse in vacanza altrove. Qualche anziano camminava verso l’edicola mentre noi camminavamo spediti in direzione di piazza dei Martiri. Il caldo si faceva sentire, ed era un caldo diverso da quello di Cencenighe. C’era più umidità ed il cielo aveva una leggera foschia che sfuocava leggermente la vista verso la Schiara. In fondo a via Garibaldi la piazza si apriva assolata e deserta. Sullo sfondo apparivano le montagne dell’Alpago avvolte da una luce azzurrognola e c’era un tranquillo silenzio in centro città. Si andava alla Posta e si sbrigavano le commissioni in modo rapido: era mattina presto e tanta gente era in villeggiatura e all’interno di uffici bar e negozi c’erano poche persone. Poi mamma diceva “…dai che se fon doi passi…” e mi sembrava ancora più strano fare il turista nella città dove abitavo. Ci fermavamo a guardare le vetrine e mi annoiavo mentre mamma ammirava incantata le scarpe ed i vestiti esposti. Successivo giro veloce in un paio di negozi per piccoli acquisti e poi il ritorno verso casa. Alzavamo le persiane ed io andavo a farmi un giro per il quartiere sicuro di non incontrare nessun amico. Mamma faceva i mestieri mentre tiravo due calci al pallone in cortile. Ed il muro era un buon compagno di gioco. Dopo l’una arrivava papà. Pranzo veloce, caffè, lavaggio dei piatti e mamma che diceva “…par carità don in su che qua le masa caldo par mi…”. Chiusura persiane e via sulla 127 color del cielo. Che ora i sedili scottavano ed ustionavano le cosce. E fino al Mas dovevo stare con le gambe in alto per non bruciarmi. L’andatura era quasi al stessa del mattino ed in poco più di un quarto d’ora eravamo già alle porte di Agordo. Era bello rivedere le montagne che avevamo salutato al mattino. Svettavano allegre nel cielo d’estate e parevano salutarci festose. Appena sceso dall’auto la vita riprendeva il suo corso abituale, con l’orologio del campanile a scandire quelle indimenticabili giornate. E Belluno era già lontana, perduta nell’afa estiva di quasi pianura.
****