di Renato Bona
Lo scomparso giornalista cadorino (di Perarolo) Fiorello Zangrando (a destra con me nella foto Zanfron; mio primo capo redazione quando esordivo a Il Gazzettino edizione di Belluno – ndr.) scrivendo il commento al libro “Un saluto dal Cadore”, edito nel 1981 da Nuovi Sentieri di Bepi Pellegrinon per il coordinamento di Eronda Graphic Design Studio, foto selezioni Monticelli di Padova, stampa Arti Grafiche Tamari di Bologna), con una splendida serie di vecchie cartoline della raccolta di Benito Pagnussat, si soffermava proprio su quest’ultimo scrivendo fra l’altro: “… queste cartoline, che hanno distribuito al mondo un’idea ottica e semantica del Cadore fatta di fontanelle e di tabià, di forosette folcloristiche e di vallate ancora poco invase dall’edilizia fantasiosa o di maldestro e ossessionato astrattismo. Queste cartoline che ornavano le vetrinette ‘quadriglié’ dei modesti ‘buffet’ di cucina, magari integrate da ingenue indicazioni augurali, da spiegazioni geografiche approssimative e da improbabili ‘edelweiss’ che hanno fatto tanto ‘kitsch’. I saluti e i baci al bromuro dal Cadore li hanno inventati e diffusi loro, questi artefici, questi bottegai, talora questi artisti… Un patrimonio. E allora forse non è semplice ‘revival’, non è puro collezionismo quello che anima Benito Pagnussat, impiegato di banca che da dieci anni compera, raccoglie, cataloga, scambia cartoline. Soltanto del Cadore ha messo insieme settecento pezzi: ‘l’ho fatto per affezione, per amore, dice. Per valutare le differenze tra ieri e oggi’. Inconsciamente, ma saggiamente, ha cercato di dare una mano alla coltivazione dell’utopia che teorizza e pratica adesso Giulio Carlo Argan… Care vecchie cartoline, lessico spesso povero e talora apodittico di un Cadore che, almeno, aveva il pregio di apparire anche fisicamente come un’entità bene individuata. Pure se impoverita e ridotta…”. Tutto ciò premesso, gustiamoci in questa occasione una serie di riproduzioni che a nostro avviso confermano quanto pregevolmente esposto da Fiorello Zangrando il quale, per la prima immagine, riportata alla pagina 21, datata 20 agosto 1902, intitolata: “Cadore. Calalzo colle Marmarole” ha composto questa dicitura: “Ancora non ci avevano messo mano gli urbanisti ed altri professionisti magari chissà quanto bravi. Eppure Calalzo aveva una fisionomia inconfondibile. Ecco il paese, largamente costruito col legno, che sembra un grande mare sul quale galleggiano tetti uguali, case che riscaldano case”. Ma – e siamo alla seconda immagine – “Anche Calalzo vuol far vedere che ha indossato sulla giubba i galloni di caporale del turismo. L’albergo Giacobbi nella via Maggiore è come un blasone. Già il paese si candida a diventare centro di ospitalità e di traffico industriale, per via delle occhialerie ben presto famose”. Altra foto che titola: “Calalzo Cadore m. 840 sul mare. Hotel Marmarole” e porta questa didascalia: “Turismo a Calalzo, si diceva. Fa perno, incontestabilmente, sull’albergo Marmarole dei fratelli Fanton. Qui vengono a soggiornare perfino personaggi di sangue blu, che ne fanno punto di riferimento per le arrampicate sulle balze vicine. Notare: l’insegna avverte che c’è la ‘pension’”. Restiamo in quel di Calalzo con la stazione e nello sfondo il monte Tudajo. Il giornalista scriveva: “Ma intanto a Calalzo arriva la strada ferrata, e sopra vi macina il suo sussulto la macchina inventata da George Stephenson e poi perfezionata. Fin qui si arriva da Belluno con lo scartamento normale. Oltre, per raggiungere Dobbiaco, basterà qualcosa a metà fra un tram e un ‘décauville’”. Ancora via ferrata con la foto intitolata: “Rizzios – Stazione Calalzo” e la didascalia: “La stazione ferroviaria sarà a Calalzo, ma per trovare colore locale bisognerà salire fino a Rizzios, sembra dire questa cartolina. E in realtà essa ritaglia dal resto del mondo una specie di Rio Bó. Come per la verità lo ha cantato un suo figlio illustre, Attilio Frescura”. Ma c’è anche a Calalzo – si legge per la riproduzione che segue – qualcosa che si salva. Come la chiesa di San Giovanni, sulla strada del Caravaggio. Una costruzione di buona architettura, mantenuta con rigore e rispetto. E’ lei che domina l’insieme. Il resto, come la strada, è secondario. Compresa, diremmo, anche la montagna. Restiamo a Calalzo, con la cartolina che si presenta anche la Valle del Piave ed il Monte Tudaio. Didascalia: “Si capisce, da questa cartolina, che cos’è il Centro Cadore. Un sentiero di paesi puliti che disegnano il fondo di una vallata stupenda, in corsa verso il Tudaio. Il Piave è ancora un fiume vero, anche se non lo si vede. E le case e i campi e la montagna ciascuno al proprio posto”. Tocca alla cartolina del Ponte della Molinà a proposito della quale si legge: “Chiesa antica, gotico di riflusso ma elegante, quella della Molinà rappresenta un edificio classico. Sorge a picco sulla rupe che incombe sul torrente, svetta soave e contiene testimonianze votive. E’ un esempio non soltanto della fede che faceva crescere i muri ma anche l’arte”. Approdiamo a Vallesella e Grea, una sotto l’altra sopra: “Non ci sono sbarramenti idroelettrici, le strade appaiono appena tagliate nella costa del monte. In compenso tra un paese e l’altro si estende una vastissima e composta geometria di campi. Si semina e si raccoglie fin dove risulta possibile”. La foto seguente viene illustrata così: “Ancora campagna vicino a Domegge. Le abitazioni sono già molto ‘civili’, la muratura ha preso il posto del legno. Ma l’aspetto d’insieme è ancora legato al rustico, alla campagna. Basta guardare la strada: poco più di un viottolo, con quei pali e quella siepe che non temono il traffico”. Segue l’immagine con primo piano dell’Albergo Belvedere e, sotto, quanto scritto da Zangrando: “E’ targato Danieli, fotografo di Santo Stefano, l’albergo Belvedere di Domegge. Oramai la villeggiatura si è fatta fenomeno di massa. Ma in paesi come questo non si edificano ancora costruzioni lussuose. Al massimo si rispettano le vecchie regole: la casa degli altri è come la propria”. E’ il turno di una riproduzione datata 19 agosto 1899: “Domegge, con la sua monumentale chiesa parrocchiale, che balza subito all’occhio. E’ l’unico edificio che la ‘camera’ fotografica pone in evidenza, estrae dal complesso. Eppure il paese ha anche altri requisiti edilizi, tipo la casa Valmassoi. Ma bisogna dare l’impressione dell’insieme”. Conclusione di servizio con lo stesso paese e in particolare la chiesa di San Giorgio con la didascalia: “Ancora Domegge e la sua chiesa. Questa volta bisogna proprio dimostrarne tutta la grandiosità, se non la magnificenza. Il tempio neoclassico fa da sfondo ad una schiera di paesani riuniti attorno al parroco. Posano un po’ sbalorditi e non sanno che questo materiale si vende anche a Dresda”.
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