LA PILA
AUDIO
581744: era questo il numero di telefono che l’agile dito indice della mamma formava infilando la falange nell’apposito buco numerato della ruota del telefono grigio posto all’entrata del salotto. Sei semi-rotazioni della ruota, e poi l’attesa, di solito breve. Erano telefonate stringate, essenziali e senza fronzoli quelle che partivano dal telefono di Belluno e giungevano a quello posto nella “inte stua” della casa dei nonni a San Tomaso. Erano dialoghi che seguivano una scaletta precisa e ben collaudata: “me racomande le pastiglie, la glicemia, vardè de no ciapà fret”. Poi l’eventuale novità del giorno ed infine, soprattutto d’autunno e d’inverno, gli aggiornamenti meteo: “com’elo ‘l temp lasù, alo fiocà?”. Al “alo fiocà” pronunciato con tono serio dalla mamma, alzavo le antenne e tentavo di immaginare la risposta che sarebbe stata formulata all’altro capo della linea. “Ah, trenta schei? ‘No pensei così tanta”. Poi un breve saluto la cornetta che ritornava a riposo e mamma che, con tono pensieroso, mi diceva che “lasù l’ha fiocà”. A San Tomaso era arrivata la prima neve, che a Belluno invece era pioggia e nebbia di metà novembre. La magia bianca l’avrei vista la domenica successiva quando, dopo una mattinata di giochi in camera e successivo pranzo, saremmo andati “in sù”. Correva veloce la Ritmo lungo l’Agordina, e a bordo i “Cavalieri della 203” ammiravano l’autunno che in quei giorni iniziava a sfumare. A Taibon non vi era ancora traccia di quella prima neve, ed una quasi delusione si affacciava nella mia mente. Poi, superato il ponte di Listolade ed imboccata la strada alta, ecco le prime tracce a bordo strada. “Te vedarà che da inte del paravalanghe ghe né de pì” diceva papà con aria sicura: ed infatti, a Morbiach la stagione di colpo cambiava. Era un trasferirsi improvvisamente nell’inverno, con il tetto del Kanguro coperto da una quindicina di centimetri di neve e cumuli a bordo strada che salivano fino a metà dei marginatori di plastica. Nuvole grigie coprivano le Cime d’Auta, e quando il motore della Ritmo si spegneva di fronte al Pelsa, i centimetri erano diventati trenta. La strada bagnata che stasera “de segur el giaza”, l’attenzione nello scendere “dù par i scalin” e poi il caldo buono di legna. I saluti ed i sorrisi, il caffè offerto a papà e il suo dare del “voi” ai suoceri. Poi il suo assentarsi per il giusto pomeriggio di svago dopo una settimana di lavoro ed il mio uscire a giocare con la prima neve. Aldilà della valle il Pelsa: con la lunga cresta imbiancata e i larici che mostravano l’ultimo arancione prima di addormentarsi nel lungo inverno. L’autunno, in quei momenti, pareva voler salutare: un commiato silenzioso e sereno, un passare le consegne alla stagione dei silenzi. Poi, quasi improvviso, l’arrivo della buio e l’accendersi della “Stella del Pelsa ad annunciare la sera. Era il tempo del rientrare in casa e mettermi ad asciugarmi sul fornel. E parlava la TV in bianco e nero, chiacchieravano i nonni e la mamna e crocchiavano i “bagigi”, con le “scuse” che finivano prima su un foglio dell’Amico del Popolo e poi nel fuoco della “cosina economica”. Caldo e parole in dialetto che insieme creavano una sorta di ninna-nanna tardo pomeridiana che favoriva un tranquillo quasi dormire. Poco dopo il battere dei sei della pendola, ecco la voce della mamma a rompere quel dormiveglia; “dai parecete che fra poc riva to pare”. Scendevo di malavoglia dal fornel dove mi stavo riposando e scongelando dopo aver passato un pomeriggio sulla neve. Infilavo le scarpe e mi appiccicavo al vetro della finestra della stua che dava verso sud. Toglievo la condensa dal vetro ed aspettavo di scorgere i fari della Ritmo. C’erano tante stelle in cielo. E la neve ghiacciata le rifletteva con mille bagliori. Guardavo ipnotizzato i larici ed il tabià mentre le voci nella stua diventavano sempre più lontane da quella visione da sogno aldilà del vetro. Poi un rumore sommesso e la luce degli abbaglianti che illuminavano il tetto del tabìà. “Mama, lè qua!!”. “Mancomal, co ste strade”. Tre minuti e la luce che vedevo “su inte stradon” non era più quella dei fanali; era quella della pila. Il fascio di luce illuminava l’insidiosa scalinata coperta di ghiaccio. Scendeva veloce la luce, pochi istanti e la porta si apriva. Occhiali appannati dallo sbalzo termico e giaccone gelido. “Son qua” Due parole e poi un “dai vien con mi fin inte cantina”. Indossavo la giacca a vento ed uscivo. Il freddo arrivava come una potente sberla. Però il panorama era superbo, con la Luna che illuminava le cime innevate ed il cielo ricolmo di stelle. Scendevamo i cinque scalini, giravamo l’angolo ed aprivamo la porta azzurra della cantina. Ci accoglieva la fioca luce della lampadina da 15 watt ed il monotono ronzio del congelatore con la spia arancione ed il grande coperchio marrone. L’intero braccio affondava nella vasca gelata e la mano afferrava un pacco di bistecche. Al rinchiudersi del coperchio il congelatore suonava vuoto, ed era il suono che annunciava “becaria” imminente: due o tre settimane al massimo ed in casa sarebbe stato lavoro febbrile “par fa su le bestie”. Risaliti i cinque scalini ecco mamma e fratello che ci aspettavano già sulla soglia con le “sportole” in mano. Gli ultimi saluti e pochi minuti più tardi la Ritmo iniziava la sua discesa lungo la provinciale scintillante di ghiaccio. Poi, dopo la salita “del Kanguro”, l’inizio della danza degli abbaglianti che illuminavano i marginatori bianchi e rossi, con la spia blu che ritmicamente si accendeva e si spegneva nel cruscotto illuminato dalla triste luce verdolina. Trentacinque minuti ed ecco presentarsi le luci di Belluno; Viale Europa, le rotaie del passaggio a livello. Il rumore delle ruote del cancello, la Ritmo che varca la soglia del garage e poi si spegne. Mezz’ora più tardi “en piat de menestron” e una bistecca. Poi sul divano tutti insieme a ridere guardando “Drive In”. La dolce stanchezza che mi faceva socchiudere gli occhi mentre Gianfranco D’Angelo tentava di far muovere l’impassibile Hass Fidanken. Il quadro di Teomondo Scrofalo e poi il dormire profondo sognando la neve. Il lunedì mattina a scuola, il tema “una domenica dai nonni” mentre fuori dalle grandi vetrate delle scuole Gabelli, le ultime foglie dei tigli andavano a posarsi sull’asfalto umido del marciapiede. Sei giorni d’autunno cittadino prima di ritornare di fronte al Pelsa; dove ormai era inverno per davvero…Magiche Dolomiti!!
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