LE RIVE DEL PIAVE
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Era tempo di zona arancione, ma in Valbelluna, in quei giorni d’inizio anno, i colori dominanti erano il bianco e il grigio. Una domenica di luce piatta, nuvole chiare e città stanca. Atmosfera di puro inverno e di surreali feste di Natale oramai sfiorite. Appena dopo pranzo fu il fiume a chiamare; da tanto tempo non calcavo quei sassi lisciati dalla corrente e non percorrevo quelle piste sterrate che d’estate sono percorse da persone in cerca di refrigerio. La Panda procedeva con cautela sullo sterrato che in quei giorni era coperto di neve. Niente classici scossoni, un andare liscio con qualche crepitio provocato dallo spaccarsi dei crostoni di ghiaccio sotto le ruote. Nei pressi del campo di calcio, lo spegnersi del motore e l’accendersi di un profondo silenzio. Le rive del Piave, quel giorno, erano avvolte in un tacere severo. Lo si respirava gennaio. Un mondo spento, una giornata uggiosa, gelida; forse la più fredda di quell’ inverno vero. La neve dura, ghiacciata; gli alberi muti, spogli e addormentati. In lontananza l’orologio del campanile bianco come la neve batteva le due. Poi, soltanto il mormorare distante dell’acqua del Fiume Sacro. L’unico elemento vivo nel gelido greto sassoso ricoperto d’inverno. Camminavo su quelle pietre che erano ricordi di passeggiate estive, di coperte stese sulla sabbia fine delle pozze asciutte, di pomeriggi trascorsi sotto ad un sole rovente che, in quelle ore, era miraggio lontano nel tempo. Tutto taceva, soltanto il gelo era cosa viva. Seguii una traccia disegnata da qualche recente brentana; quando il Piave mostra i muscoli da queste parti muore un mondo e ogni volta ne nasce uno nuovo; quante volte è accaduto e quante volte ancora accadrà. Vi furono tempi in cui si poteva arrivare dove l’acqua del Cicogna si unisce con quella del grande fiume. Quel giorno, invece, non era possibile: la traccia si interrompeva molto prima. Così aveva deciso il fiume in tempi recenti. Aveva nascosto un mondo e ne aveva fatto riaffiorare un altro che non conoscevo. Ho camminato con curiosità seguendo questa nuova traccia mentre la luce degli ancora corti pomeriggi andava scemando. Neve bianca e alberi neri, pozzanghere gelate e silenzio. Poi, improvvisamente, la strada era diventata groviglio di tronchi congelati e pietre smosse dalla forza di quell’acqua che in quel pomeriggio, invece, stava cantando una musica scommessa e gentile. Una breve sosta e poi il ritornare sui miei passi che nemmeno erano rimasti impressi sulla neve marmorea. Luce che calava, freddo che mordeva e l’orologio che batteva le tre. Il Serva e la Schiara, come impassibili sfingi di roccia, vegliavano la piccola città. Mormorare d’acqua ed una gelida domenica di gennaio che si avviava verso uno stanco tramonto di pieno inverno.
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