VENERDI’ SANTO
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“Venerdì Santo, prima di sera, c’era l’odore di primavera…” Così cantava Guccini in una delle sue prime canzoni. Ma in quel venerdì Santo del 1996 non c’era alcun sentore di primavera; soltanto per il calendario era tempo della stagione del risveglio della natura, la realtà climatica di quel giorno, invece, sanciva una sorta di novembre anticipato. “te catarà nef su de la” disse papà mentre mi stavo preparando per partire in direzione Cencenighe. Era Pasqua d’inizio aprile, e la sera “de vender Sant” a Belluno pioveva a dirotto. Atmosfera pesante, carica d’acqua e mestizia nel giorno più serio dell’anno; e silenzio di parole mentre la Panda saliva lungo l’Agordina squarciando le pozzanghere e pure la foschia che saliva dal Cordevole. Superato il ponte di Listolade, appena imboccata la vecchia 203 lambita dal “Cordeol”, ecco la pioggia tramutarsi in neve bagnata; larghi fiocchi scendevano “de stravent” turbinando in prossimità dell’uscita delle valli laterali. Poi a Cencenighe, una volta sceso dalla macchina, la possente voce del Biois ingrossato dal disgelo. Vento novembrino e neve rabbiosa, che avrebbe voluto attaccare per terra ma non ci riusciva; ed allora a tratti aumentava d’intensita rendendo difficile l’accendere i lumini posati sui davanzali e agli angoli del terrazzo. Era “sburia d’aoril” in atto, e persone che in silenzio varcavano la porta della chiesa. Qualche anziana in ginocchio e parecchie persone in attesa dell’inizio della funzione. Le pale degli altari ricoperte con i drappi viola. Le litanie in latino, la Croce Nera e le campane mute; e fuori un tacere severo ed il rombo cupo del Biois che pareva salire dagli inferi. C’era un qualcosa di medievale in quell’atmosfera di neve d’inizio aprile; i lampioni spenti e la tremolante luce delle candele posate sui davanzali rendevano quasi spettrale il paese. Pure la chiesa, le case e la piazza avevano addosso un’aria mesta; e intanto la neve seguitava a scendere prepotente e il vento fischiava mentre attendevo l’inizio della processione. Si aprì la porta della parrocchiale e per prima uscì la Croce nera; la sua forma severa era divenuta solamente un profilo accennato in quella oscurita pressoché assoluta. Poi l’avanzare lento del corteo e l’interno della chiesa illuminato soltanto dalle candele; e in piazza, il bagliore azzurro dei lampeggianti dell’Alfa dei Carabinieri pronti a fermare un traffico che non c’era. Il corteo silente avanzava “inte par Vila” e nel buio risuonavano le preghiere in latino mentre il vento si infilava nelle “burele”. Poi il ritorno sulla 203, ancora azzurro di lampeggianti e la processione che ritornava verso il centro del paese. Qualche minuto più tardi ecco la Croce varcare nuovamente la porta della chiesa; di lì a poco lo scemare della celebrazione e la gente che ritornava alle proprie case. Ritornarono il silenzio della neve che ancora tentava di attaccare sul porfido del sagrato e la voce profonda del Biois. Le candele poste agli angoli del terrazzo erano ormai spente ed era giunto il momento di ripartire alla volta di Belluno. Strade bagnate mi accolsero, e la piccola città era immersa in un clima di umida mestizia; le campane avrebbero suonato la sera successiva e, forse, la domenica sarebbe ritornata la primavera.
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