BELLUNO D’AUTUNNO
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Ad ottobre inoltrato Belluno era ormai completamente immersa nell’autunno. Era il tempo delle brinate mattutine e del posarsi delle foglie gialle dei tigli sui marciapiedi, ed era dopo la metà del mese che, anche in città, si iniziava a respirare appieno la stagione dei colori. Splendidi tramonti trasformavano il Piave in una lucente striscia dorata che impreziosiva per qualche minuto la Valbelluna. Poi era uno spegnersi del sole ed un accendersi di insegne dei negozi e di fari d’auto che transitavano in Piazza dei Martiri. Uomini con cappotti e cappelli uscivano dagli uffici e si dirigevano verso i bar del centro per qualche “ombra” in compagnia. Nelle vie e nelle piazze si respirava profumo di castagne arrostite e di legno di cirmolo; erano i primi anni dell’ “Ex Tempore” di scultura, e mille occhi di adulti e bambini ammiravano i sapienti gesti degli scultori. Riccioli di legno a terra e odore di miscela delle motoseghe, risuonare dei “mazot” che battevano veloci sui manici degli scalpelli. E fu in una mattina di “brosa” che imbiancava i cubetti di porfido che la mia maestra Maria Ester, classe 1932, ci portò ad ammirare gli artisti all’opera. Lavoravano infreddoliti, appena riscaldati dal tepore di stufette elettriche che prendevano corrente elettrica nei bar tramite improvvisate prolunghe rigorosamente fuori norma. Ed erano felici di raccontare a noi bambini stupiti le loro sculture. Ricordo uno stambecco in particolare, magistralmente scolpito in Via Loreto. Speravo vincesse il premio, e quando rientrammo in aula, cercai di contribuire all’eventuale successo scrivendo il nome dell’autore sull’apposita schedina. Poi la maestra ci raccontava di San Martino, il Patrono della nostra città che avremmo festeggiato l’11 novembre. E sul quadernone “delle tradizioni” apparivano maldestri tentativi di raffigurare il Santo che tagliava un pezzo del suo mantello per regalarlo al povero. Qualche volta era accaduto di ritrovarmi durante il pomeriggio nella severa location di Palazzo Piloni, ad attendere per qualche minuto il terminare della giornata di lavoro di papà. Odore pungente di ammoniaca delle eliocopie e frusciare dei disegni sui tecnigrafi mentre su piazza Duomo scendeva la sera. Poi, dopo i cinque rintocchi dell’orologio del campanile dello Juvarra, uscivamo dal portone per due compere ed un breve giro a “vardà le statue”. All’ortofrutta De Dea compravano un po’ di frutta e verdura e poi facevamo una breve passeggiata in direzione di Piazza dei Martiri. Era in quei momenti che Belluno diventava vera città: con le vetrine appannate dei bar affollati di persone che parlavano a voce alta immersi in fumose atmosfere. E poi fanali d’auto che correvano in un anarchico andirivieni, che allora le Z.T.L. non erano nemmeno un’idea. Vigilesse con la gonna e donne cariche di borse che uscivano dalla Standa. Ragazzi che andavano avanti e indietro per il Liston chiacchierando allegri. E intanto gli scultori iniziavano a rallentare il loro battere sugli scalpelli e qualcuno di loro entrava nei bar per riscaldarsi e bere un bicchiere. Noi terminavamo il rapido giro e tornavamo a Palazzo Piloni a recuperare la 127 color del cielo parcheggiata nel piazzale interno. Accensione con l’aria tirata, attesa del semaforo con le frecce di via San Lucano e poi ancora Piazza dei Martiri. Freccia a sinistra, Via Garibaldi e in tre minuti eravamo a casa. Già luccicavano i vetri delle macchine parcheggiate in cortile, e inconfondibile giungeva alle mie narici il profumo “de menestron de verdure”. Terminavano così quelle fresche giornate bellunesi di quasi metà autunno, con i compiti ancora da finire e la cena con la l’ispettore Derrick impegnato in qualche sua indagine in quel di Monaco. Poi un po’ di televisione in salotto e l’andare a letto alle nove, cullato dal tic tac del timer del riscaldamento, a sognare quella prima neve che in quei giorni aveva già imbiancato la cima della Schiara.
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