ALLE SCUOLE GABELLI
AUDIO
La campana della chiesa di Loreto suonava alle otto e trenta precise. Rintocchi argentini a cadenza veloce annunciavano una nuova giornata e lo sfumare del traffico del mattino. Era in quei momenti che la vigilessa lasciava il governo dell’incrocio della stazione; riponeva il filo-comando nell’apposito alloggiamento e abbandonava il crocevia mentre noi scolari, attraverso le grandi vetrate delle aule delle Scuole Gabelli, guardavamo sfiorire l’autunno cittadino. Volteggiavano lente le foglie del pruno rosso prima di posarsi sull’erba curata delle aiuole e sull’asfalto dei vialetti; e poi ancora le foglie del melo e del pero, del faggio e della betulla, che appena si erano posate al suolo, venivano subito ammucchiate dalle grandi scope manovrate con sapienza e vigore dai bidelli. Era attraverso i grossi rami del cedro del Libano che vedevamo il vivere lento proprio delle piccola città. Fra un esercizio di grammatica e un problema di aritmetica sempre troppo complicato da risolvere, potevamo scorgere gli autobus gialli che procedevano pigri in direzione del centro per poi raggiungere quelle frazioni lontane che allora non conoscevo. A volte il lacerante suono di una sirena squarciava il silenzio novembrino, e subito tutti noi ci perdevamo in mille fantasie, immaginando chissà quale avvenimento in corso. Passavano lente quelle lezioni autunnali, e ad ogni inizio di giornata la maestra ci faceva disegnare il simbolo che rappresentava il clima del giorno. In qualche occasione era un sole brillante simile a quello appena sorto dopo una notte di brina che stentava a sciogliersi; e un bianco scintillante decorava la struttura in ferro della grande pergola da dove, a metà settembre, penzolavano i grappoli d’uva americana. Più spesso, invece, il simbolo era una nuvola grigia con le strisce azzurre che rappresentavano la pioggia. Aldilà del pesante cancello di ferro sormontato dalle aquile, la luce dei fari delle auto si rifletteva sull’asfalto bagnato mentre le foglie dei tigli cadute sul marciapiede si riducevano in una poltiglia giallastra e scivolosa. Poi, normalmente verso la fine del mese, in cima ad una pagina del quaderno delle Regioni d’Italia, compariva per la prima volta il simbolo della neve; e allora era festa, con la classe in subbuglio e neppure la maestra poteva sottrarsi allo spettacolo della magia bianca imbiancava la città. Tutti insieme dietro i vetri ad ammirare i fiocchi che scendevano lenti e poi quel “…dai bambini, raccontate la neve…”; ed era bello narrare delle discese con la slitta lungo la via che avremmo iniziato appena dopo pranzo, e alla sera la strada sarebbe stata liscia al punto da renderla pressoché impraticabile alle auto, e sarebbe stato interessante ascoltare le imprecazioni di chi si piantava in salita. Scorrevano con un ritmo sempre uguale quelle mattine d’autunno inoltrato nell’aula delle Scuole Gabelli, e solamente un giorno a settimana qualcosa mutava; un’ora di musica nell’apposita aula munita di gradoni in legno, e guai sedersi mentre la maestra picchiava sui tasti del pianoforte marchiato Steinbach. E noi bambini seguivano quelle melodie, cantando Va Pensieri stonati e Canzoni del Piave che sapevano d’eroismo; e poi il Piave era il nostro fiume ed occorreva cantarlo con il massimo impegno e trasporto emotivo. Poi alle 12.30 il suono dell’ultima campanella di giornata annunciava l’agognata libertà; correvamo tutti in direzione del cancello, qualcuno abbracciava genitori o nonni, altri come me si avviavano verso casa a piedi e qualcun’altro, invece, si metteva in coda dietro alla suora per raggiungere il convitto Sperti situato a poca distanza. Si chiudeva così la mattinata trascorsa alle Scuole Gabelli; ora era il tempo dei meritati giochi da cortile, da consumare in fretta in quei pomeriggi ormai sempre più brevi, e delle lunghe sere con le strade scintillanti di brina di quasi inverno.
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