ARRIVA L’INVERNO
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L’arrivo dell’inverno era sancito dalla telefonata dei nonni che dimoravano a San Tomaso; fra un “come vala” e un “vardè de ciole le medesime”, giungeva pure la notizia della prima nevicata seria di stagione. Che a novembre aveva scherzato con un paio “de brisade” che il sole non ancora stanco era riuscito quasi a sciogliere completamente, lasciando qualche chiazza di neve solamente sui prati in ombra. Ma ora, al tempo della “becaria” appena terminata e della festa di Santa Barbara, quei trenta e passa centimetri annunciati al telefono, sarebbero rimasti sul serio. “Fiochelo ‘ncora?” chiedeva pensierosa la mamma prima di riattaccare; “eh sì” era la risposta, e stava a significare che non era ancora il tempo delle notti gelide e ricche di stelle che brillavano sopra il Pelsa. Altre volte, invece, era il giaccone gelato di papà ad annunciare l’arrivo della stagione dei silenzi; e pareva che il freddo di Cencenighe si fosse attaccato al tessuto verde e avesse voluto arrivare fino a Belluno per annunciarmi che sì, ora era inverno per davvero. Guardando dalla finestra, ammiravo le tre dita di neve sul tetto della 127 color del cielo che aveva appena preso posto in cortile; aldilà dei vetri leggermente appannati scendeva una pioggia fredda, a tratti mista a neve, e papà in corridoio, mentre appendeva il giaccone sull’attaccapanni, ci diceva “el fioca dal Peron in sù”. Mentre ci raccontava che la strada era innevata dal ponte dei Castei in poi, io immaginavo la sera di lassù, con la nonna intenta a cucinare mentre la “pendola” batteva le sei. E chissà come scendeva quella neve d’inizio dicembre, mi chiedevo; magari a larghe falde, ed era quella “che la bina” come diceva pensieroso nel frattempo papà, oppure era più fina e veloce e ghiacciava immediatamente appena posata al suolo. E intanto la cucina economica avrebbe avuto i cerchi roventi e il fornel sarebbe stato bollente, e poi in cucina sicuramente profumo di minestra e nella “stua” la voce della signorina bionda, che conduceva l’Almanacco del Giorno Dopo, ad annunciare l’ora dell’alba e del tramonto. Chissà che silenzio c’era lassù mentre nevicava mi chiedevo, mentre il mestolo carico di minestra fumante riempiva i piatti. Nel frattempo, fuori continuava a scendere quella pioggia mista a neve che andava a creare una brodaglia semi-trasparente scivolosa e bagnata, e mentre soffiavo sul cucchiaio per tentare di raffreddare la minestra rovente, pensavo che il giorno dopo sarebbero stati utili gli stivali per andare a scuola; e c’era anche un po’ di delusione per quella pioggia che continuava a scendere fitta e che non si decideva a trasformarsi in neve vera. Poi, a cena terminata e tavola sparecchiata, accendevamo la TV in soggiorno per guardare il telegiornale mentre lassù, di fronte al Pelsa dove invece stava nevicando, la giornata, al tempo del TG1, era già finita. Immaginavo le luci fioche che si spegnevano, i camini che lentamente smettevano di fumare; e poi la neve che arrotondava le forme delle poche auto parcheggiate e che spianava la scalinata che scendeva fino a raggiungere la porta della stalla. Lassù, ora, era il tempo della perfetta e fredda quiete della montagna d’inverno e per me, invece, era il tempo del dormire accompagnato dal tik tak del timer del bruciatore. Il nuovo giorno, forse, si sarebbe annunciato con un’alba fredda e tagliente e un cielo grigio chiaro. Ci sarebbe stata la brina a ricoprire i vetri delle auto parcheggiate in cortile; forse, alla sera, San Nicolò avrebbe portato la prima neve anche nella piccola città.
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