MARZO 2019
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Erano trascorsi poco più di quattro mesi dalla grande tempesta, il tempo di un inverno di montagna. Novembre era stato mese difficile e grande era stato l’impegno necessario per rimediare ai danni in vista dell’imminente stagione fredda; i torrenti da mettere in sicurezza, le strade e le linee elettriche da riparare, e poi gli acquedotti e gli impianti sciistici da rimettere in perfetta efficienza. Circa un mese di lavori terminati a tempo di record e poi l’inverno con i suoi freddi silenzi a curare le valli ferite. A gennaio era arrivata la neve a coprire gli alberi schiantati e gli alvei ancora sconnessi dei torrenti ed io, nel frattempo, un po’ perché non ne avevo avuto l’occasione e soprattutto perché non avevo voluto, non avevo ancora visitato la Val Cordevole. Mi ero spinto qualche volta fino ad Alleghe per seguire le partite di hockey, ma era stato sempre di sera, e il buio di quelle serate d’inverno aveva custodito per bene il disastro; sapevo dai filmati di quello che era accaduto più a nord, ma in quei mesi freddi desideravo tenermi stretto il ricordo di come erano quei luoghi prima di quel triste ventinove ottobre. L’ultimo passaggio era datato metà settembre, ed era stato uno splendido pomeriggio di fine estate passato a vagabondare fra Santa Fosca e i passi Giau e Valparola. Poi arrivò marzo con i suoi primi accenni di primavera, e una domenica pomeriggio decisi di ritornare in Val Cordevole per rendermi conto di persona di cos’era accaduto in quella drammatica serata di metà autunno. Non c’era nessuno per strada e guidavo piano lungo i rettilinei che portano a Caprile; mi sentivo come se stessi varcando la porta dell’ospedale e mi stessi recando a visitare una persona cara. Osservavo il greto del Cordevole che mostrava i segni della piena e gli abeti divelti sui pendii che sovrastano Santa Maria delle Grazie; una visione desolante, ed ero conscio che il peggio doveva ancora arrivare. All’entrata di Caprile fermai la macchina a bordo strada; rimasi letteralmente senza fiato mentre guardavo il versante lungo il quale si inerpica la 203. A metà settembre la strada era nascosta da un fitto bosco di “pez”, sei mesi più tardi, invece, la Strada Madre saliva lungo un pendio devastato e irriconoscibile. Qualche minuto più tardi ripartii prendendo proprio la 203 Agordina. Salivo lentamente lungo i primi tornanti, e panorami nuovi mi si aprivano davanti; superata la casa cantoniera, lo sguardo poteva spingersi lungo l’intera stretta di Digonera, lassù c’era Livinallongo e appena fuori della carreggiata un delirio di tronchi aggrovigliati. A Rucavà abbandonai la Strada Madre e raggiunsi il Belvedere; c’era un vento leggero di marzo e il cielo era d’un azzurro stinto di quasi primavera. E poi le cime a sfiorare quel cielo celeste chiaro; loro erano sempre al loro posto. Il Pelmo ad est, il Civetta di fronte e il Sasso Bianco erano sempre lì a fare da magnifico sfondo a queste valli. I boschi, invece, in parte non c’erano più. Osservando da lassù gli alberi a terra sembravano i militi di un esercito sconfitto da un’arma terribile e sconosciuta. Poi arrivò una ragazza; anche lei si era fermata come me a guardare. Ci trovammo a commentare sottovoce quanto vedevamo, proprio come si fa in cimitero nel giorno dei Morti. Poche frasi e poi un ciao, sempre sottovoce. Con grande rispetto verso quello che era diventato una sorta di “Sacrario degli Alberi Caduti. Poi il vento si fece più forte e a tratti sembrava richiamare l’inverno; era tempo di partire e di lasciare i boschi feriti che, come gli uomini, attendevano una nuova primavera.
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