SPELEOLOGIA
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“…e adesso, come faccio a parlare polacco?? Che io in lingua polacca riesco a dire solo Papa Wojtyla e Solidarnosc…”. Era questa la domanda che mi ero posto quel giorno quando ho trovato una vecchia Subaru verde smorto parcheggiata accanto al tabià nel bosco. Poco lontano c’erano due giovani vestiti da arrampicata e dall’aspetto vagamente hippy intenti a godersi il sole di metà settembre, e poi, fra gli alberi, c’erano altre due persone che passeggiavano; un uomo brizzolato, dallo sguardo saggio ed una barba identica a quella di Capitan Findus, che probabilmente doveva essere il capo di questa curiosa faccenda, che stava confabulando con una ragazza dai capelli neri e il fisico minuto. Ci siamo studiati per circa un minuto e poi ho rivolto loro un saluto aspettandomi una risposta carica di consonanti sparse a caso; e invece, a sorpresa, arrivò un “buongiorno” in italiano tendente al vicentino. L’accento veneto mi tranquillizzò, non avrei dovuto tentare di parlare in un improbabile polacco, ed era già una bella cosa; bastarono poche frasi per entrare in sintonia con quelle persone dai visi abbronzati e un po’ stanchi. Mi dissero che erano appartenenti ad una associazione vicentina di speleologi, e che in quel fine settimana erano stati impegnati in una campagna di censimento di caverne. Nei due giorni precedenti avevano battuto la zona delle Cime d’Auta e quel giorno stavano terminando il loro lavoro visitando le “sfese” del monte Anime. Da ignorante ma affascinato dalla materia in questione ho chiesto ragguagli trovando una grande disponibilità da parte loro, cosa non scontata vista la stanchezza che traspariva sui loro volti. Mi spiegarono che, oltre al lato prettamente esplorativo, la loro attività di censimento di caverne e spaccature varie, era importante ai fini dell’eventuale ricerca di persone scomparse. Un’opera meritoria che andava celebrata con un giro di birre buone, che furono molto apprezzate vista anche la calura di quella domenica di fine estate. Ecco, ora finalmente conoscevo il perché di quelle targhette lucenti con impresso un codice GPS e riportante la dicitura “Catasto delle Grotte del Veneto”. Sapevo della presenza di spaccature in quella zona, ma non pensavo fossero visitabili e soprattutto che potessero interessare a degli speleologi. Raccontai di tutte le continue raccomandazioni che mia mamma ripeteva come una sorta di mantra; “…ste atenti fora là, che lè pien de sfese…”, e l’uomo con la barba mi disse immediatamente che mia madre aveva una gran ragione, che le spaccature c’erano davvero e pure piuttosto profonde. Poi ho raccontato della frana scesa nel giugno del 1940 che aveva interrotto la viabilità della Val del Biois rendendo così necessaria la costruzione della vecchia galleria “delle Anime”; evento, questo, che non conoscevano e che in parte poteva aver contribuito alla formazione di quelle fenditure presenti nei pressi dell’orlo della parete strapiombante. Poi, fra una chiacchiera e l’altra, abbiamo trovato pure il tempo per una breve visita guidata all’ingresso di una fenditura a me ignota; arrivati al pauroso imbocco della caverna, la ragazza dal corpo minuto che mi aveva accompagnato fin lì, mi ha chiesto “ti piacerebbe fare lo speleo? Il tuo fisico è ottimo per esplorare fessure, io mi sono calata stamattina in questa caverna…”. D’istinto ho guardato il terribile buco nero e ho risposto “no no, è un po’ claustrofobica questa faccenda delle grotte, però sappi che vi ammiro davvero tanto!!”. Al nostro ritorno, il capobanda aveva sancito che per loro era tempo di lasciare il monte; la strada che conduce alla terra del Palladio è parecchio lunga e di lì a poco le ombre avrebbero iniziato ad allungarsi sulla valle. Ci siamo salutati e poi la Subaru verde ha iniziato la sua audace arrampicata lungo la strada forestale; era terminato così quel curioso pomeriggio dedicato alla speleologia, e poche ore più tardi sarebbe terminata pure un’altra estate.
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