LA PREGHIERA
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In quella limpida e calda mattina di fine luglio cercavo un percorso ripido da salire e poi storie di montagna e un po’ delle mie radici. Era da tempo che pensavo di partire da Costoia, la frazione di San Tomaso che per prima vede spuntare il sole sopra il Pelsa, per poi inoltrarmi lungo la strada forestale che porta lassù sui ripidi pendii del Sasso Bianco, dove i miei avi falciavano i prati d’alta quota. Per me, gran parte di quelle persone che hanno vissuto questa montagna, sono nomi i cui visi sono ritratti in bianco e nero su fotografie ormai sbiadite che si trovano nel camposanto che guarda il Civetta; nomi di uomini e donne che talvolta chiamano, che invitano a far loro visita lassù, lungo quei versanti che erano la loro casa e la loro vita. Era mattina presto quando ho parcheggiato in una piccola piazzola mentre il sole si preparava a scavalcare il Mont’Alt e dopo i primi passi la salita si è presentata subito erta. Camminavo lentamente e nel frattempo pensavo a quelle radici importanti che abitano in questi luoghi; esse chiamano, ma occorre un pò di sforzo per raggiungerle. È salita ripida, sfrontata, dura, a tratti quasi violenta. Occorre salire con il passo sapiente dei vecchi: un passo lento ma continuo, il passo di quelli che c’erano prima che su questi pendii erano di casa; erano figli di questa montagna, camminare in salita era la loro vita e sapevano come farlo al meglio. Poi bisogna superare gli abeti schiantati che sbarrano la strada: erano imponenti, si innalzavano fieri verso il cielo, a quel tempo giacevano malinconicamente sdraiati verso valle ed occorreva scavalcarli o più frequentemente passarci sotto. Poi la strada diviene sentiero calcato da pochi scarponi. Ancora due ruscelli gonfiati dal temporale della notte precedenti da superare e poi l’arrivo dove “…se slarga i prà nel cielo, parole e musica di Bepi De Marzi. Quassù però non c’è il Rifugio Bianco citato nel bellissimo canto di montagna: ci sono invece i piccoli tabià di La Mont dove un tempo veniva immagazzinato il fieno falciato a 1800 metri di quota. Erano vite dure, faticose, e i piccoli tabià raccontano queste vite. Sembrava di sentirlo il frusciare dell’erba tagliata dalla “faoz”, come pure l’inesorabile grattare dei “restiei” che non lasciavano sparso nemmeno un filo di quell’erba preziosa che costava fatica. Guardavo il Pelsa, il Civetta, l’Agner che spuntava dietro le Pale di San Lucano e pensavo che chi è venuto prima di me aveva vissuto una vita di sacrifici in questo luogo dove ora regna il grande silenzio della montagna. Mi chiedevo quali fossero i loro pensieri nei confronti delle montagne; io ero lì un po’ per diletto e un po’ per cercare testimonianze di quel loro vivere, loro, invece, salivano fin quassù a faticare per garantire il fieno alle proprie vacche. Chissà se si emozionavano quando assistevano ad un’alba o quando vedevano arrossire il Civetta al tramonto, oppure se per loro la montagna rappresentava solamente una condanna a fatiche e sacrifici perpetui. Mi ponevo domande difficili ed era impossibile trovare le risposte; forse era sempre valido quello scarno e severo “era così” che a loro bastava per narrare la loro dura vita di montagna. Ammiravo le montagne vestite d’estate e i fienili vecchi di chissà quanti anni, e mentre osservavo le “breghe” di larice ingrigite, ho trovato una piccola targa sulla quale era riportata una semplice preghiera;
Proteggi le fatiche dei nostri nonni,
proteggi le bellezze naturali dei nostri monti.
Proteggi il cammino della gente che percorre questi sentieri.
Parole semplici che ho scandito ad alta voce mentre cercavo quel quarto delle mie radici che abitano sui ripidi costoni del Sasso Bianco. Mentre iniziavo la discesa mi sentivo sereno, ero riuscito a scovarle quelle radici, a sentirle dentro di me. Avevo ammirato le stesse cime e calcato i sentieri che quelli che c’erano prima avevano percorso per decenni; avevo trovato tutto, ed era stato emozionante.
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