LA PRIMA VOLTA A ERTO
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Fu esattamente alla metà degli anni ’90 che mi recai per la prima volta ad Erto. Non ricordo quale fu il motivo preciso che spinse tre amici a far visita al paese situato a mezza costa nella valle del Vajont. A quel tempo un alone di malinconico silenzio avvolgeva l’intera triste vicenda che riguardava la grande tragedia che colpì Longarone ed Erto. La splendida e toccante Orazione Civile di Marco Paolini sarebbe stata trasmessa due anni dopo e internet era ancora un qualcosa di primordiale e quasi sconosciuto, pertanto non era semplice, allora, carpire informazioni in merito a questo drammatico evento che segnò per sempre la vita di troppe persone. Noi, del Vajont, a quei tempi sapevamo che una enorme frana era caduta nel lago artificiale, che la diga per altezza era fra le prime al mondo e che i morti erano stati quasi duemila. Partimmo così, curiosi e quasi totalmente ignoranti in materia, alla volta della diga del Vajont e poi di Erto, un paese di cui conoscevamo solamente il nome. La Uno verde salì spedita lungo gli ampi tornanti della strada che sale da Codissago fino al momento in cui trovò la luce rossa del semaforo a fermare la sua corsa. La galleria scavata nella viva roccia era un budello buio; niente lampade arancioni come quelle della galleria delle Anime a Cencenighe, solo un buco nero illuminato dai fari stanchi della Uno che procedeva con la dovuta circospezione nonostante il momentaneo senso unico indotto dal semaforo. All’uscita trovammo la diga alla nostra destra, e la prima visione di quel muro chiaro e ricurvo in tutte le direzioni ci ammutolì. Eppure avevo visto altre dighe presenti in provincia, quella del Mis ad esempio, oppure la sua quasi gemella di Pontesei in Val di Zoldo; erano opere imponenti, ma al cospetto di quella che ora avevamo di fronte, apparivano come delle miniature. Parcheggiammo alla meglio e poi guardammo giù nella gola, la visione era da autentica vertigine e non riuscimmo a vedere nemmeno il piede della diga che sembrava scendere all’infinito in quell’abisso di nuda roccia. Dopo qualche minuto ripartimmo alla volta di Erto; parcheggiammo nei pressi del cimitero all’entrata del paese vecchio e poi ci incamminammo lungo la strada che taglia in due il borgo. Ricordo le case alte con le finestre piccole ornate da perfetti stipiti in pietra, alcune rimesse a nuovo, altre, invece, vittime del trascorrere inesorabile del tempo. Guardammo attraverso alcune finestre ormai prive dei vetri e vedemmo travi ricurvi, solai sfondati, antichi focolari che da decenni non riscaldavano più anime e stanze. Continuammo la nostra visita discreta fra le case senza incontrare nessuno lungo il nostro percorso; ricordo il silenzio e il muschio che rinverdiva gli antichi selciati, gli stretti viottoli che si diramavano dalla via principale salendo lungo il pendio e, dall’altro lato, scendendo verso ciò che rimaneva del grande lago artificiale. Giunti al termine del borgo guardammo in alto e scorgemmo il paese nuovo, quello ricostruito dopo la catastrofe. Salimmo una lunga scalinata in cemento e ci inoltrammo fra gli edifici anch’essi costruiti in cemento armato; in pochi minuti eravamo passati dall’antico al moderno, ed era strano camminare lungo quelle vie asfaltate che sapevano di quasi città. Poi entrammo in bar per bere qualcosa e fu in quell’occasione che, per la prima volta, potei ascoltare la parlata ertana e, nonostante quel ladino dolomitico duro, parecchio diverso dal mio dialetto agordino, riuscii a capire quasi tutto ciò che dicevano i pochi avventori che fra una parola e l’altra ci osservavano con la giusta curiosità. Ci fermammo poco, poi prendemmo la via del ritorno fermandoci appena qualche minuto ad osservare alcuni free climber impegnati lungo le difficili vie della famosa palestra di roccia. Terminò così la nostra prima visita al paese di Erto, e per me fu la prima di tante perché in quel giorno ormai lontano, questi luoghi mi entrarono subito nel cuore.
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