SOGNO D’INIZIO ESTATE
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Era uno stanco sabato pomeriggio d’inizio estate, di pioggia insistente e verde intenso dei boschi e delle ortiche e di grigio delle nuvole che accarezzavano i fianchi del Pelsa. L’acqua che scorreva nelle grondaie cantava una musica che sapeva d’autunno che andava ad unirsi al brusio d’auto che saliva dalla 203 e alla voce cupa del Rù da Ghisel gonfio dell’acqua di un altro maggembre andato. Tutto come in certi giorni di allora; mancavano solamente i visi e le voci di chi, lassù, viveva lo scorrere delle stagioni. Mancavano le parole in dialetto, il camminare lento di chi fra poco avrebbe falciato i prati e mancava perfino la visione della grande casa di Colaz, ormai immersa nel bosco aldilà della valle. Ero solo in quel mondo di larici verdi e di rare auto che transitavano lungo la provinciale bagnata, ero solo ad ascoltare quel piovoso silenzio d’inizio giugno. Non era mia intenzione fermarmi per molto tempo fra quelle mura rinnovate da un paio d’anni, ma la pioggia che ormai si era fatta battente aveva cambiato i miei piani per quel pomeriggio. Poco male, mi dicevo mentre osservavo i rami fradici della vecchia “zaresera”, mi fermerò qui fino a quando si placherà un po’ questo ennesimo episodio di maltempo. Così sono salito nel sottotetto che un tempo era la soffitta dove mi perdevo a giocare per pomeriggi interi con la “roda da filà” e mi sono sdraiato sul divano ad ascoltare la pioggia che batteva potente sulla lamiera del tetto. Ero solo, ma non mi sentivo solo; c’erano i miei ricordi più belli a farmi compagnia e li sentivo vicini quegli affetti che sempre mi accolgono con dolcezza quando arrivo a San Tomaso. Quella atmosfera silente mi aveva fatto cadere in un tranquillo dormiveglia e pareva quasi di sentirla quella coperta colorata posata con grazia sopra le gambe. Accadeva sempre così, allora, quando mi addormentavo sul divano “…’n te stua…”, e non importava se era pieno luglio e si crepava di caldo; la coperta rappresentava quel “voler bene” divenuto nel tempo indelebile e dolce ricordo. Poi quel dormiveglia è diventato sonno profondo con sogno incorporato, e dentro al sogno c’era la soffitta rovente d’estate e gelida d’inverno, con le tavole traballanti poggiate sul pavimento e con il pulviscolo illuminato dai sottili raggi del sole che filtravano dal vetro della porta del “soler”. C’era la quiete di quei giorni che passavano lenti e il suono dell’incedere agile e leggero della nonna e quello più pesante e asincrono del nonno. E poi lo scricchiolare secco delle perline e il suono metallico della pendola che scandiva quelle infinite ore d’estate trascorse giocando a torso nudo sul mucchio di sabbia. Era un sogno profumato di naftalina e lacca Splendor, di aroma di caffè che all’alba saliva lungo la scala di legno, era un sogno in cui prendevano posto le voci anziane e i suoni semplici prodotti da quel vivere pressoché privo di tecnologia. Poi, dopo un tempo che appariva indefinito, ecco il tranquillo risveglio, del tutto simile a quelli di allora. Ero ritornato ad essere solo nella casa dalle mura rinnovate e fuori la pioggia era svanita e aveva lasciato spazio a potenti squarci di sole; era arrivato il tempo di salutare quelle anime che mi avevano tenuto compagnia in quel pomeriggio, era giunto il momento di ritornare accanto al Biois dove la campana accompagna le mie placide notti agordine.
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