Al salario minimo per legge, la CGIA invita l’applicazione della contrattazione di secondo livello, il taglio dell’Irpef e il rinnovo dei contratti entro la scadenza
In Veneto le buste paga più pesanti sono erogate ai lavoratori dipendenti del settore privato della provincia di Vicenza. Nel 2021 la loro retribuzione media annua era pari a 24.139 euro (+10,4 per cento rispetto alla media nazionale). Seguono i colleghi di Treviso con 23.836 euro (+9 per cento), di Padova con 23.788 (+8,8 per cento), di Verona con 22.726 euro (+3,9 per cento), di Belluno con 21.754 (-0,5 per cento rispetto alla media Italia), di Venezia con 20.454 euro (-6,5 per cento) e, infine, di Rovigo con 19.811 euro (-9,4 per cento) (vedi Tab. 1). Tra le maestranze occupate nella provincia berica e quelle alle dipendenze delle imprese polesane, le prime avevano una retribuzione annua lorda superiore alle seconde del 22 per cento.
A livello regionale, nel 2021 il salario medio annuo in Veneto era pari a 22.852 euro; eravamo al quarto posto a livello nazionale dopo la Lombardia (27.285 euro), l’Emilia Romagna (23.798 euro) e il Piemonte (23.661 euro). Il dato medio nazionale ammontava a 21.868 euro (vedi Tab. 2).
Sono questi alcuni degli aspetti emersi dall’elaborazione eseguita dall’Ufficio studi della CGIA su dati INPS che ripropongono una vecchia questione: gli squilibri retributivi presenti tra le diverse aree del nostro Paese, come, ad esempio, tra Nord e Sud d’Italia, ma anche tra le aree urbane e quelle rurali del nostro Veneto. Questione che le parti sociali hanno tentato di risolvere, dopo l’abolizione delle cosiddette gabbie salariali avvenuta nei primi anni ’70 del secolo scorso, attraverso l’impiego del contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL). L’applicazione, però, ha prodotto solo in parte gli effetti sperati. Le disuguaglianze salariali tra le ripartizioni geografiche sono rimaste perché nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie/assicurative/bancarie che – tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media – sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane, soprattutto del Nord. Le tipologie di aziende appena richiamate, infatti, dispongono di una quota di personale con qualifiche professionali sul totale molto elevata (manager, dirigenti, quadri, tecnici, etc.), con livelli di istruzione alti a cui va corrisposto uno stipendio importante. Tuttavia, se invece di comparare il dato medio tra aree geografiche diverse lo facciamo tra lavoratori dello stesso settore, le differenze territoriali si riducono e mediamente sono addirittura più contenute di quelle presenti in altri paesi europei.
Pertanto, possiamo dire che in Italia le disuguaglianze salariali a livello geografico sono importanti, ma, grazie a un preponderante ricorso alla contrattazione centralizzata, abbiamo differenziali più contenuti rispetto agli altri Paesi. Per contro, la scarsa diffusione in Italia della contrattazione decentrata – istituto, ad esempio, molto diffuso in Germania1 – non consente ai salari reali di rimanere agganciati all’andamento dell’inflazione, al costo delle abitazioni e ai livelli di produttività locale, facendoci scontare anche dei gap retributivi medi con gli altri paesi molto importanti.
Meglio la contrattazione decentrata del salario minimo
Come ha avuto modo di segnalare anche il CNEL2, il problema dei lavoratori poveri non parrebbe riconducibile ai minimi tabellari troppo bassi, ma al fatto che durante l’anno queste persone lavorano un numero di giornate molto contenuto. Pertanto, più che ad istituire un minimo salariale per legge andrebbe limitato il ricorso ad alcuni contratti a tempo determinato. Altresì, dall’Ufficio studi della CGIA fanno sapere che per innalzare gli stipendi dei lavoratori dipendenti, in particolar modo di quelli con qualifiche professionali minori, bisognerebbe continuare nel taglio dell’Irpef e diffondere maggiormente la contrattazione decentrata. Avendo una delle percentuali relative al numero di lavoratori coperto dalla contrattazione collettiva nazionale tra le più alte a livello europeo (95 per cento del totale dei lavoratori dipendenti), dovremmo “spingere” per diffondere ulteriormente anche la contrattazione di secondo livello, premiando, in particolar modo, il raggiungimento di obbiettivi di produttività, anche ricorrendo ad accordi diretti tra gli imprenditori e i propri dipendenti. Così facendo, daremmo una risposta soprattutto alle maestranze del Nord e in particolar modo del nostro Veneto che, a seguito del boom dell’inflazione, in questi ultimi due anni hanno subito, molto più degli altri, una spaventosa perdita del potere d’acquisto.
Contratti di lavoro di secondo livello: coinvolti solo 3,3 milioni di lavoratori (il 20% del totale)
Entro il 15 giugno scorso erano presenti presso il Ministero del Lavoro 10.568 contratti attivi di secondo livello, di cui 9.532 di natura aziendale e 1.036 territoriali. Lombardia (3.218), Emilia Romagna (1.362) e Veneto (1.081) sono le regioni che presentano il numero più elevato. Di questi 1.081 presenti nella nostra regione, 1.013 sono aziendali e 68 territoriali (vedi Tab. 3). I dati del Ministero del Lavoro, purtroppo, non ci consentono di misurare il numero di lavoratori coinvolti a livello regionale. Sappiamo, però, che in Italia sono interessati solo 3,3 milioni di dipendenti (il 20 per cento circa del totale nazionale), di cui 2,1 da contratti aziendali e 1,1 da contratti territoriali3.
In Italia un dipendente privato su due ha il CCNL scaduto
Oltre ad estendere l’applicazione della contrattazione decentrata, l’Ufficio studi della CGIA ritiene che per appesantire le buste paga sarebbe necessario rispettare le scadenze entro le quali rinnovare i contratti di lavoro. Al netto del settore dell’agricoltura, del lavoro domestico e di alcune questioni di natura tecnica4, al 1° settembre scorso il 54 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato in Italia aveva il CCNL scaduto. Stiamo parlando di quasi 7,5 milioni di dipendenti su un totale che sfiora i 14 milioni. E’ molto difficile individuare le cause che non consentono la sottoscrizione del rinnovo entro la scadenza prevista dal contratto, tuttavia è verosimile ritenere che in molti casi ciò sia riconducibile alla difficoltà riscontrata dalle parti sociali a trovare un accordo sugli aumenti economici che vada bene sia al Nord che al Sud. Insomma, non essendo sviluppata sufficientemente la contrattazione di secondo livello – che per sua natura è in grado di premiare la produttività aziendale/territoriale e definire le contromisure per contrastare l’inflazione che, come sappiamo, ha tassi differenziati tra regioni e regioni e tra aree centrali e aree periferiche – è sempre più difficile raggiungere una intesa sugli aumenti retributivi di settore entro la scadenza prevista per un contratto che vada bene da Vicenza fino a Ragusa.