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DICEMBRE
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Era al termine del mese triste che l’autunno salutava la valle; bastava una notte di burrasca per spogliare i larici e i faggi e far entrare l’inverno nel vivere ora più lento degli uomini e della natura. I boschi ormai addormentati e un vento freddo che sferzava il paese, raggelando gli uomini e ghiacciando le pozzanghere. Era tempo di legna e di fuoco che ardeva potente nella stufa, era il tempo dell’inizio dell’ultimo mese dell’anno. Iniziava così dicembre, il mese delle poche ore di luce e delle lunghe e fredde notti durante le quali ghiacciavano le fontane. Dicembre era mese duro e gelido, ma la sua severità era mitigata dal clima di festa che si iniziava a respirare già nei primi giorni. Era il tempo dell’accensione delle luminarie di Natale e delle prime due ricorrenze, la prima dedicata ai grandi e subito dopo la seconda, invece dedicata ai più piccoli. Santa Barbara, la protettrice di minatori artiglieri e dei Vigili del Fuoco e poi, subito dopo, il tanto atteso San Nicolò, che portava sempre un piccolo dono a quei bambini che mettevano accanto all’entrata il fieno per l’asinello e un bicchiere di rosso per il Santo. Poi le giornate si facevano sempre più brevi, e al mattino era un lungo e freddo attendere il sole. A volte le notti erano inquiete, con le montagne che parlavano con voce di vento. Si agitavano i rami spogli dei larici e dal fondo della Val Cordevole saliva un rombo cupo, continuo e severo e tutto era vivo nel buio della notte; quando c’era la luna il Pelsa vestito d’inverno si mostrava imponente e austero e nel cielo limpido brillavano migliaia di fredde stelle. Poi il lungo venire del giorno; erano questi i giorni delle albe infinite dei profondi silenzi dei boschi addormentati e del Rù da Ghisel trasformato in cascata di ghiaccio. Dopo il giorno dell’Immacolata, alla sera i tetti delle case si trasformavano in profili luminosi e all’interno delle “stue” si respirava il profumo del muschio dei presepi. Quando il cielo ingrigiva era sempre neve in arrivo, e così erano pomeriggi domenicali trascorsi a giocare con quella neve nuova e poi, all’accendersi delle stelle, era uno sghiacciarsi sul fornel rovente. Aldilà dei sottili vetri l’inverno potente, nella stua la televisione in bianco e nero che mandava le pubblicità natalizie della Coca Cola e del pandoro Bauli. Poi finalmente il tanto atteso Natale, con la cena della Vigilia consumata in salotto a Belluno. I grissini avvolti dal prosciutto crudo, i tortellini in brodo e poi la carne e il tiramisù con i savoiardi annegati nella crema. I calici riempiti con lo spumante e un sorso anche per me, il taglio del pandoro lasciato tutta la sera ad intiepidire accanto al termosifone. Poi l’agognato regalo, quello desiderato da tempo, e una lunga notte insonne trascorsa pensando a come giocarci con quel dono natalizio. Natale e Santo Stefano erano giorni stanchi, passati in casa un po’ a giocare e un po’ a guardare i classici programmi natalizi, e poi di nuovo lassù al paese, dove il fuoco ardeva nella cucina economica ed era più inverno. A quota mille il gelo avvolgeva ogni cosa e a buio fatto la neve scintillava alla luce della luna. Ormai era già tempo di ultimo dell’anno da trascorrere lassù, dove i silenzi d’inverno erano potenti come il botto provocato dal tappo dello spumante aperto a mezzanotte in punto. Si congedava così dicembre, e sfumato il fragore dei fuochi artificiali che avevano scosso la quiete della valle, calava ancora una volta il tacere profondo di un nuovo lungo e gelido gennaio.
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