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IN VAL DI GARES
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In quella domenica di metà gennaio Gares era un freddo sogno d’inverno, con la neve tenacemente aggrappata ai rami degli abeti e il gelo che arrossava la pelle. Nella valle, l’inverno è sempre inverno vero; lassù, le montagne sono accarezzate dal sole stanco del primo mese dell’anno per un tempo breve, sufficiente a donare un lieve tepore che riscalda anime e rocce, poi, dopo il suo precoce calare, ritorna implacabile la gelida quiete della stagione dei silenzi. Ero arrivato a Gares al mattino presto, al tempo dell’ora blu; scintillanti candelotti di ghiaccio ornavano le grondaie delle case e dei tabià, e pure i sottoporta delle automobili parcheggiate. La si respirava nettamente quell’atmosfera di inverno potente e severo; erano ancora pochi i camini fumanti e d’intorno si ascoltava un tacere profondo di natura e motori. Il sole ancora ben nascosto dietro la forcella di Campigat e uomini che tentavano disperatamente di aprire le proprie vetture avvinte dal gelo. Qualcuno riusciva nell’intento, poi il passaggio successivo sarebbe stato quello di dar vita ai motori. Sguardi preoccupati e batterie sfiancate dal freddo della notte, motorini di avviamento che rantolavano nella penombra del primo mattino e poi i primi vagiti incerti dei propulsori che si mostravano piuttosto svogliati. Il cielo era ancora blu scuro quando ho iniziato ad inoltrarmi fra le case della frazione più remota di Canale d’Agordo, il fiato ghiacciava sulla barba e la mente immaginava come poteva essere stato tanti anni fa, quando gli inverni erano ancora più inverni e non c’erano motori da avviare. Pensavo a quel mezzo metro di neve che era niente rispetto alla quantità accumulatasi in certi inverni rimasti nella memoria dei più anziani, pensavo al senso d’isolamento che potevano creare quelle masse di neve in un luogo così remoto. E poi immaginavo le decine di quintali di legna accatastata, necessaria al superamento degli inverni che qui sono eterni, ai larin roventi e ai vetri finestre delle camere da letto ornate da geometriche figure di ghiaccio. Immaginavo gli uomini impegnati a piodek a liberare le strade senza l’ausilio dei mezzi meccanici attuali, riflettevo in merito al necessario aiutarsi gli uni con gli altri per superare le difficoltà di quel vivere al limite. Come poteva essere stato l’abitare d’inverno questo paese situato al termine della lunga valle che si insinua fra le montagne, mi chiedevo mentre lasciavo il paese inoltrandomi lungo la strada forestale che conduce a Malga Stia; ed ecco ritornare ancora una volta quel “era così” senza appello, pronunciato con tono fermo da quelle persone che portavano in viso i segni di quella dura vita d’alta montagna. Riflessioni e pensieri mentre salivo veloce lungo la strada forestale innevata, e poi finalmente il sole che, scavalcando la forcella di Campigat, donava nuova luce e conforto al mio incedere su quella neve dura come il marmo. Malga Stia mi aveva accolto con un leggero gocciolare d’acqua dal tetto e un panorama che induceva al silenzio e alla contemplazione. Bianco di neve, l’azzurro carico del cielo e l’inverno più gentile del quasi mezzogiorno; al calare delle prime ombre che inscurivano il fondovalle avevo preso la strada di casa. Ancora poche ore e poi quel freddo si sarebbe tramutato in gelo di neve scintillante e poi le stelle, a brillare nel limpido cielo delle notti di inizio anno.
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