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LADRO DI SILENZI
AUDIO
Una tranquilla sera di metà gennaio, il riscaldamento della casa di fronte al Pelsa da controllare e, soprattutto, il desiderio di fare una scappata infrasettimanale sù al paese. Un’oretta appena, giusto il tempo di controllare i termostati, premere qualche display touch screen e rubare un po’ di quei freddi silenzi delle notti d’inverno. La 203 Agordina al tempo del dopocena è pressoché deserta, rare sono le vetture che solcano l’asfalto della Strada Madre che in qualche punto è ricoperto di brina. Superata la galleria dei Castei ecco la prima neve a bordo strada e l’abbassarsi repentino della temperatura; alle Miniere l’inverno è sempre potente e i fari illuminano gli alberi incrostati di neve, proprio come accadeva al tempo in cui gli antichi e allora cadenti edifici mi affascinavano e mi intimorivano nello stesso momento. Agordo e Taibon, poi all’orizzonte ecco la grande stella cometa delle Anime ad indicare il mio approdo. Le luci delle frazioni alte di Cencenighe si confondono con le stelle che stasera brillano con vigore nel cielo limpido, qualche luminaria ritardataria ricorda il Natale appena passato e i camini fumano decisi. Fa freddo stasera, una donna esce in terrazzo per sbattere la tovaglia e poi rientra in fretta in casa mentre entro nel paese che sta vivendo una tranquilla sera di metà settimana. L’auto sale leggera lungo la provinciale di San Tomaso, solo i miei fari a bucare questa notte agordina; pochi minuti dopo parcheggio all’interno del grande curvone, scendo dalla macchina e respiro quel freddo così simile a quello che, tanti anni fa, mi arrossava la pelle del viso e mi ghiacciava le dita. Tutto tace al cospetto delle montagne vestite di neve. Come un ladro di silenzi entro in punta di piedi nel gelido tacere della notte per non disturbare le stelle, evitando di fare rumore per non svegliare gennaio. C’è la luna calante alta sopra il Pelsa, e lo scricchiolare delle due dita di neve sotto le scarpe è l’unica voce che si può udire in questa notte d’inverno. Una quiete antica e poche finestre illuminate, le impronte dei cervi sulla neve gelata e i ricordi di quando si respirava il freddo tagliente delle sere d’inverno. Mi fermo per qualche minuto lì dove inizia la scalinata che conduce a casa e mi guardo intorno. Di fronte a me, appena più in basso, le nuove luci di Ghisel che appaiono come una nuova costellazione che brilla sul ripido costone della grande montagna. Ancora qualche minuto a scrutare il cielo, come accadeva allora mentre ci si preparava a fare ritorno in città, e poi un rapido giro all’interno della casa rinnovata. Accendo le luci, sfioro le pietre di quei muri tirati sù con fatica quasi ottant’anni fa. Quelle pietre, ora liberate dagli opprimenti intonaci che le imprigionavano, raccontano gli anni duri del dopoguerra, narrano andate e ritorni dalla Svizzera, ricordano la brina che le ricopriva in certe notti di quei lontani inverni. Ascolto il loro silente narrare, controllo tutto ciò che di moderno ora è presente in casa e poi mi preparo a fare ancora una volta rotta verso sud. Ora la vettura scende con cautela lungo la provinciale ghiacciata mentre, aldilà della valle, le luci di Colaz e del Bricol appaiono come enigmatiche e solitarie sentinelle che sorvegliano la notte. A Cencenighe mi ha saluta il vento che scende dalla Val del Biois mentre la campana batte la mezza di un’ora notturna; il tempo di un saluto e poi via come accaduto tante volte in questa vita. Solo i miei fari a bucare la notte lungo la Strada Madre mentre la luna stanca passeggia fra le cime e le stelle.
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