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UOMINI E MONTAGNE
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Mostravano visi duri, solcati da rughe profonde come i canaloni del Pelsa, e l’avevano scolpita nell’anima quella terra di montagna che li aveva visti nascere e vivere, e che un giorno li avrebbe accolti per sempre. Sentivano nelle ossa il freddo di quegli inverni che iniziavano già a novembre e le loro mani robuste raccontavano i mille lavori che li impegnavano durante le quattro stagioni. La vivevano nel profondo quella montagna che offriva loro da vivere ma che pretendeva dure fatiche per essere vissuta. Qualcuno se n’era andato da lassù, portandosi appresso una valigia di cartone e ricordi che ogni sera ritornavano puntuali. Bastava chiudere gli occhi per rivederle quelle montagne che ora distavano centinaia di chilometri di terra e talvolta pure di mare. In quegli attimi ritornavano le cime imbiancate dalla prima neve di fine ottobre, i nomi in dialetto delle valli e delle persone e pure quella nostalgia che li avrebbe accompagnati per sempre. Chi era rimasto, invece, portava impresse nel corpo e nell’anima le fatiche provate lì dove i paesi sono aggrappati ai pendii e dove le estati sono lunghe poco più di un respiro. Conoscevano tutto di quella terra che rappresentava la loro stessa vita e sapevano leggere il cielo racchiuso fra i monti che si innalzano verticali dal fondovalle. Erano maestri nell’interpretare quelle nuvole capaci di portare neve e, a luglio, qualche temporale buono per bagnare quell’erba falciata che si stava trasformando in fieno. Dal fondovalle, dove scorrevano fresche e talvolta impetuose acque di torrente, fino sù alla quota degli ultimi larici, tutto era buono per ricavare da vivere. Più in alto, dove l’erba lasciava spazio alla roccia, non era più affare loro. Quello era il regno dei cacciatori di camosci, uomini che conoscevano ogni palmo di quei terreni severi, capaci di muoversi sull’orlo di smisurati dirupi e di leggere le tracce del re delle crode. A quelle donne e a quegli uomini che avevano deciso di rimanere non servivano le rocce che sfioravano il cielo, a loro occorrevano i boschi, i prati e la terra dei campi. Era necessaria quella montagna di mezzo, quella meno appariscente ma più preziosa. Era quello il loro mondo, un mondo fatto di prati da falciare, di campi buoni per le patate e fagioli, di erba d’alta quota buona per soddisfare l’appetito delle vacche che trascorrevano l’estate nelle malghe; ed era sempre lassù sui pascoli alti, dove battevano i fulmini e a giugno spuntavano i rododendri e dove terminava la montagna utile, che cresceva l’arnica, quella che messa sotto spirito, guariva le botte e leniva i dolori. Ogni palmo di quei terreni sempre in pendenza era curato e sfruttato con la sapienza tramandata di generazione in generazione; un sapere antico, che li rendeva custodi di un territorio difficile e avaro ma che garantiva loro la sopravvivenza. Erano uomini aggrappati a quelle montagne che oggi custodiscono storie e memorie di un tempo ormai lontano.
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