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RITORNO A CASA
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Ad inizio novembre, l’ultimo giorno di lavoro al cantiere sembrava eterno. Le ore scorrevano lente e i pensieri erano al giorno successivo, al viaggio che lo avrebbe condotto aldilà delle Alpi, al suo paese natale, quello che al mattino vedeva sorgere il sole sopra il Pelsa. Era giornata carica di subbuglio, erano attrezzi da riporre, sacchi di cemento da immagazzinare e considerazioni in merito al lavoro compiuto in quegli ultimi otto mesi. La grande casa era cresciuta di un paio di piani e chissà di quanto erano cresciuti anche i suoi figli, pensava mentre menava gli ultimi colpi di badile. Al venire del buio oramai precoce, quando era ormai svanito il fragore della betoniera e la gru stava emettendo gli ultimi stanchi cigolii, era il tempo dei saluti ai compagni di lavoro. Erano pacche sulle spalle, erano parole in quel tedesco che anno dopo anno andava perfezionandosi, erano altre parole in italiano e in dialetto del suo paese. Alla sera, una bevuta in compagnia dei paesani, quelli che lo avevano aiutato a lenire la nostalgia di casa, quelli che alla metà di marzo erano saliti sul treno insieme a lui per raggiungere il nord della Svizzera; e poi a casa, dove tutto era già pronto per la partenza finalmente imminente. Sulla sedia accanto al letto c’era la camicia bianca, quella della domenica, i pantaloni con la riga e la giacca dei matrimoni e dei funerali. Vicino alla porta c’era la valigia colma di vestiti da lavoro e piccoli regali per la moglie e i figli, e sul tavolo il biglietto del treno che lo avrebbe riportato in patria. Nel primo pomeriggio del giorno successivo erano in tanti insieme a lui ad attendere il treno nella grande stazione di Basilea. In una mano teneva la valigia, nell’altra un giornale appena acquistato. Avrebbe letto quelle pagine durante le prime ore di viaggio, per tentare di distrarsi e far passare più in fretta quel tempo che ancora sembrava infinito, un tempo grigio d’inizio novembre che lo separava dal riabbracciare la sua famiglia e dal rivedere le sue montagne. Il capotreno gli sorrise mentre saliva sul vagone e pochi minuti più tardi un fischio ed uno scossone annunciarono l’inizio del ritorno a casa. Un sonno profondo lo colse a sera ormai fatta mentre il treno correva spedito lungo le valli svizzere. Era un sonno ricco di sogni, ed in quei sogni c’erano il cantiere, i figli e la moglie, le montagne il fienile e il maiale che avrebbe macellato a fine novembre. Riaprì gli occhi poco dopo l’alba, quando ormai il treno correva lungo la pianura lombarda. Dal finestrino osservava i campi a riposo imbiancati dalla brina, gli alti e scintillanti tralicci che portavano la corrente elettrica fino a Milano e le cascine, con i camini fumanti e le aie ghiacciate. Uno snodarsi di dolci colline annunciò la terra veneta e nella grande stazione di Padova cambiò treno, salendo sul convoglio che lo avrebbe riportato fra le sue montagne. La locomotiva a vapore sbuffava mentre si inoltrava nella vallata feltrina e finalmente si sentiva a casa. Osservava i profili delle montagne illuminate dal sole del mezzogiorno e contava i minuti che lo separavano dal paese. Poi l’ordinata stazione di Belluno e la corriera che poco più tardi solcava l’asfalto nuovo della Strada Agordina. Scorrevano paesi e pensieri mentre il sole stanco si preparava ad iniziare il suo congedo giornaliero nascondendosi dietro alle cime ad ovest. Scese a Cencenighe, e gli ultimi due chilometri e mezzo volle percorrerli a piedi, come aveva fatto migliaia di volte, come aveva fatto, però al contrario, il giorno di San Giuseppe, quando aveva lasciato la valle. Venti minuti di cammino mentre l’ombra risaliva la parete del Pelsa, poi laggiù in basso dietro una curva, la casa che aveva tirato sù a mano. Il camino che fumava, i larici dorati, un lungo respiro e le lacrime trattenute a stento. Aprì la porta, si guardarono per qualche secondo, e poi disse Son lugà…
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