di Renato Bona
Il Corriere delle Alpi ha recentemente pubblicato a firma di Gianni Santomaso un interessante servizio su Valle Imperina, spiegando che c’è un progetto da due milioni e 80 mila euro per la rigenerazione del sito minerario, da attuare da parte del Comune di Rivamonte con 14 interventi, in collaborazione con le Università, l’istituto Follador di Agordo ed il comune di La Valle Agordina, non trascurando i disabili visivi e uditivi per i quali sono previsti brevi percorsi per consentire la visita alle miniere. La notizia ci offre il destro per tornare su “Una miniera veneta. Valle Imperina dal 1886 al 1962”, di Marco Orlandi, pregevole libro edito nell’ottobre 1980 dalla benemerita Nuovi Sentieri Editore di Bepi Pellegrinon, e stampato dalla bellunese Tipografia Piave. Soffermandoci sulle condizioni dei lavoratori fino alla chiusura avvenuta di fatto l’8 settembre del 1972, sancita dal decreto ministeriale che porta la data ufficiale del 2 settembre 1963, l’autore Marco Orlandi ricorda che: “secondo una pianta organica risalente al 1851, i lavori della miniera dovevano essere eseguiti da 465 operai, divisi in due categorie, 265 addetti al sotterraneo e 205 alle fucine. Di frequente, però, la mole del lavoro richiedeva la presenza di cosiddetti ‘temporari’, che arrivavano a raggiungere, talvolta, anche le 200 unità”. I lavoratori provenivano in maggior parte da Rivamonte ed Agordo e in parte modesta dai paesi circostanti. Venivano ripartiti in compagnie, controllate ognuna da un capo operaio; gli operai ordinari percepivano un compenso fisso, gli altri a seconda del lavoro svolto: quello nel sotterraneo durava solitamente 16 ore, tranne le feste, con le compagnie che si succedevano le une alle altre in turni di 8 ore. Dopo il 1866 non venne più assunto alcun operaio alle fucine che non avesse compiuto i 14 anni mentre in precedenza erano ammessi al lavoro anche ragazzini di 8-10 anni; andavano via via riducendosi i lavoratori del sotterraneo di meno di 20 anni. Oltre agli operai vi erano 13 impiegati e lo stabilimento aveva il proprio medico che, pagato dall’erario, percepiva 60 centesimi per ogni visita, pagati dalla Cassa Infermi che era alimentata dalla sottrazione di circa l’1 per cento delle paghe del personale stabile. E se un operaio veniva colpito da malattia che non gli consentiva la prosecuzione del lavoro veniva messo “in provvisione” che consisteva in un terzo dell’ultima paga per quanti avevano solo 8 anni di servizio, e paga intera per 40 anni o più di lavoro. Nello scorrere del tempo si registra il nascere delle prime forme di organizzazione operaia sì che “il malessere fra i lavoratori della miniera di Rivamonte poté finalmente uscire dallo stadio di lamentela individuale e trovare espressione collettiva nella Cassa Soccorso Operai che era sorta come Cassa di confraternita per gli operai infermi”. In tal modo assumeva il ruolo di portavoce delle rivendicazioni operaie tanto che nel 1911 sarà punto di riferimento di uno dei maggiori scioperi che la storia dell’epoca abbia registrato”. Si protrasse infatti per ben tre mesi e provocò danni ingentissimi alla miniera, causando un allagamento pressoché totale, dovuto alla mancanza degli addetti all’eduzione delle acque, e il franamento conseguente ai cantieri”. Cessato lo sciopero occorsero altri tre mesi per la riapertura della miniera. Ma… “Fu proprio in conseguenza di questo sciopero che la Società Montecatini, da poco proprietaria dello stabilimento, si rese protagonista del sequestro di tutto il capitale della Cassa Soccorso Operai. Cui gli operai si opposero il 25 marzo 1912 scrivendo al Regio Capitanato Montanistico, anche a favore dei molti compagni licenziati a seguito della riduzione dei lavori. Per fortuna nonostante Tribunale di Belluno e Corte d’appello di Venezia fossero già stati chiamati in causa, fu trovata un’intesa, il sequestro giudiziario fu revocato e l’assemblea generale dei soci della Cassa Soccorso Operai deliberò il pagamento delle spese giudiziarie e dei legali e la concessione di sussidi straordinari agli operai. Le lamentele per le condizioni di lavoro restavano precarie e nel 1931 la miniera rimase chiusa per un lungo periodo e ciò provocò mancanza di lavoro per tutti gli operai del giacimento. L’autore a questo punto sottolineva che “ancora innumerevoli sono state le vicissitudini superate dai minatori di Rivamonte nell’arco di tanti secoli” e concludeva: “Il decreto ministeriale del 2 settembre 1963 sancì ufficialmente la chiusura dei battenti della miniera… e la fine non solo di un’attività economica plurisecolare nell’industria bellunese, ma anche e soprattutto l’estinguersi di un mondo, se pur ristretto, nel quale per secoli gli abitanti di quei monti identificarono la possibilità di sopravvivere e portare a casa il pane per le loro famiglie. Più di 400 operai furono impiegati, in media, negli ultimi due secoli, nello sfruttamento della miniera: per loro essa rappresentò l’alternativa all’emigrazione e alla sofferenza di un lavoro saltuario”.
NELLE FOTO (riproduzioni dai libri, entrambi editi da Nuovi Sentieri, di Marco Orlandi “Una miniera veneta” e “Riva de na òlta” con testo di Raffaello Verdani e fotografie di Giuliano Laveder e dal libro “Rivanonte” edito dalla Parrocchia): il servizio di Gianni Santomaso pubblicato sul Corriere delle Alpi con l’annuncio di progetti d’intervento per oltre 2 milioni per la rigenerazione del sito minerario; immagini di varie epoche relative a Valle Imperina; gruppi di minatori, prevalentemente di Rivamonte; primo maggio degli anni ’50: “A ‘Vallimperina’ la vita era ancora fiorente e si trovava modo di far festa nonostante il duro lavoro nel sottosuolo”.
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