di RENATO BONA
La preziosissima fonte di notizie che è il libro “Ricordando. Storia e immagini del comune di Sedico”, edito da Comune e Biblioteca civica nel marzo del 1986 con l’Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali e per i tipi della tipografia Piave, contiene un capitolo sugli “Aspetti economici e culturali nel tessuto sociale di Sedico” che è stato curato da Gianni De Vecchi, un autentico personaggio di Sedico e per Sedico che non ha bisogno di presentazioni. Ci occupiamo oggi dello spazio che De Vecchi ha in particolare riservato a “Le segherie ai Meli e Seghe di Villa” che si apre con la sottolineatura che: “…furono i più grossi impianti per segare i tronchi (le taje) posti sul Cordevole che rivestirono sempre una grande importanza per l’economia dell’Agordino basti pensare che proprietari negli ultimi due secoli sono stati abili e agiati commercianti di Agordo o Forno di Canale (l’attuale Canale d’Agordo, fra l’altro paese natale di Albino Lucini il “Papa bellunese del sorriso asceso al soglio di Pietro il 26 agosto 1978 col nome di Giovanni Paolo I – ndr.)”. Spiega quindi che: “Anche la scelta stessa delle località, Meli si trova a soli 3 chilometri circa dalla confluenza col Piave e Seghe di Villa a circa 5, consentiva la spedizione del legname lavorato (nei secoli scorsi formando delle zattere) verso la Bassa (in special modo Venezia), utilizzando le acque del Cordevole in questo tratto ormai meno ripido e impetuoso”. E ricorda che l’origine delle segherie, le prime presumibilmente di modeste dimensioni, ai Meli e a Seghe di Villa (queste ultime forse impiantate nel 1700) si perde nei tempi. Le prime notizie scritte in proposito, tratte dalle Anagrafi della Repubblica veneta, sono del 1766: compare infatti il nome di luogo Seghe e vi si trova riportato che nella ‘Pieve di Sedego’ ci sono “15 seghe a legname e una fucina da ferrarezza”. Ancora storia: nel 1820 le segherie dei Meli furono acquistate, con il Colle dei Pat, case, terreni e mulini, dalla nobile famiglia de Manzoni, titolare nell’Agordino dove risiedeva di un florido commercio di legname. De Vecchi formula l’ipotesi che “Conoscendo l’intraprendenza di detta famiglia e in particolar modo la personalità di Giovanni Antonio de Manzoni, sempre all’avanguardia per le sue molteplici iniziative nel campo industriale, commerciale e agricolo” l’attività delle segherie dei Meli e di Seghe di Villa abbia conosciuto un notevole incremento dovuto soprattutto al miglioramento delle attrezzature atte a segare le ‘taje’”. La tradizione vuole che nel 1882 una grande piena distrusse le segherie dei Meli, che furono ricostruite dove si vedono le attuali. Pure la ‘roja delle zate’ fu spostata per portare l’acque nella nuove segherie cui erano addossati i ‘casòt’ (casoti) per i ‘segat’ (segantini). Da una pubblicazione dell’epoca si apprende che nel 1891 in tutto il comune di Sedico erano attive 4 segherie con 18 motori idraulici, per una potenza complessiva di 100 cavalli (sesto posto in ambito provinciale dopo Longarone con 420, Perarolo con 230, Ospitale di Cadore con 208, Fonzaso con 120 e Gosaldo con 110). Davano lavoro a 38 persone per 250 giorni l’anno. Nel 1882 furono espropriate ai de Manzoni e passarono a Giuseppe Chitarin che nel 1897 le vendette agli agordini Vittorio Dartora, Giovanni e Sante Luciani, Giovanni Tognetti, commercianti di legnami e possessori di boschi, i quali ammodernarono gli stabilimenti e introdussero un sistema di lavorazione di tipo industriale, aumentando il numero delle seghe e conseguentemente la produzione e gli occupati. A quei tempi le seghe erano azionate, grazie a vari congegni, dalla forza dell’acqua di un canale, la “roja”, e le segherie costruite sulla sponda del Cordevole per agevolare l’invio delle zattere di legname lavorato. Segue una pregevolissima descrizione delle varie fasi della lavorazione: un impegno duro e pericoloso che imponeva, fra l’altro ai “menadàs”, quasi tutti di Cencenighe, “di affidare alle acque, pochi per volta, ben 10.000 tronchi” che da La Muda in giù venivano presi in consegna dagli operai che lavoravano in tre squadre: una era formata dagli “armaroli” che predisponevano con tronchi lo sbarramento chiamato “bailon” dei rami secondari del torrente per avere più acqua e perché le “taje” non si disperdessero; un’altra spingeva i tronchi più grandi e lenti che restavano in coda, la terza infine si occupava di buttare in acqua, pochi per volta i tronchi che per imprevisti vari si erano arenai sul greto. Dieci-dodici ore in acqua (e non c’erano a quel tempo gli stivali…) che richiedevano gran colpo d’occhio ed agilità. Spesso costretti a saltare da un tronco all’altro “sopra ai disordinati mucchi formatisi, per districare con l’ “andier” (lunga asta con spuntone ed uncino) le “taje”, talvolta anche più di cento, che avevano fatto “serra” cioè dato origine ad uno sbarramento (e qualcuno ci lasciò anche la pelle…). Finalmente arrivate a destinazione, le “taje” venivano in parte accatastate nei “canzei” (cataste) dagli operai delle segherie, aiutati da contadini del posto ed in parte lasciate in acqua a “purgarsi”. Gli stabilimenti per lavorare il legname erano a Seghe di Villa e ai Meli: basse costruzioni alcune in legno altre in muratura, comprese le segherie vere e proprie e i “casot dei segat”. De Vecchi prosegue la sua narrazione con riferimento anche ai periodi delle due guerre mondiali e ricorda che “Nel dopoguerra, sistemati nuovamente i macchinari, il lavoro riprese a pieno ritmo, occupando molti operai. Si forniva legname lavorato a magazzini di tutto il Veneto e si commerciava anche con ditte dell’Emilia e della Romagna. Legname fu inviato anche in Egitto (nei primi anni del Novecento era invece stato inviato in Libia addirittura il tetto completo di una chiesa). Verso gli anni Cinquanta, con la costruzione del lago del Mis che utilizzava anche l’acqua della centrale situata a La stanga, il livello del Cordevole diminuì a tal punto che cessarono totalmente la fluitazione del legname (trasportato da quel momento esclusivamente coi camion) e l’uso delle turbine ad acqua, necessario a far funzionare lo stabilimento… Verso il 1970 il lavoro cominciò a diminuire, per cessare del tutto nel 1980: nel frattempo le segherie a Seghe di Villa erano completamente rovinate. Ora anche le segherie dei Meli sono in completo abbandono: alcune tettoie sono crollate, altre si reggono per miracolo… e a qualche vecchio “segat” viene un groppo alla gola nel veder tutto andare in malora”.
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro “Ricordando. Storia e immagini del comune di Sedico): la segheria dei Meli verso il 1930: la “menada” è appena terminata e gli operai con l “andier” sistemano la “taje” sui “canzei” (cataste), sullo sfondo, nelle quattro basse baracche addossate al palazzo, sono in attività, due per parte della “roja”, le seghe “veneziane”; veduta delle segherie dei Meli: in primo piano i “canzei” ed alcuni operai impegnati a “canzelar”.