Loris Santomaso nella presentazione di “Atefùlgore. La boa in Val Misàga. Memorie d’altri tempi”, libro di Albino Mezzacasa (disegni dell’autore; foto, elaborazioni e ricostruzioni grafiche d’epoca al computer di Luigi Smaniotto; composizione e impaginazione al computer di Toni Pampanin e dello stesso Santomaso) edito nel luglio 2001 da Nuovi Sentieri di Bepi Pellegrinon per i tipi della bellunese tipografia Piave), ricorda la tragica, famosa “bòa”, terribile catastrofe che nell’aprile del 1701 sconvolse la tranquilla e laboriosa vita di La Valle Agordina. L’evento provocò lutti e rovine distruggendo, fra l’altro, l’antica chiesa di San Michiél. Santomaso rende merito a Mezzacasa il quale, nel trecentesimo anniversario degli accadimenti, “.. con questo pregevole volumetto ha inteso portare un proprio significativo contributo alle manifestazioni celebrative: una sua personale’memoria’, a dir poco singolare, attraverso la quale rievoca, con riferimento a luoghi e persone quasi sempre reali, la drammatica sequenza di quei fatti allucinanti”, aggiungendo: “Già il titolo, nella sua emblematica deformazione dialettale, di schietto sapore popolare, racchiude e trasmette, con grande immediatezza, la tragica portata della ‘boa’, poi l’immaginario dialogo, intessuto dall’autore con un ipotetico personaggio dell’epoca, ripercorre in maniera incalzante le fasi del cataclisma, un autentico ‘Dies irae’, che ha mutato la fisionomia e la toponomastica del paese”. Non poteva essere diversamente dato che anche in queste pagine, come in svariate opere d’arte di Albino Mezzacasa “traspare ancora una volta evidente il solido radicamento alla terra d’origine e alla sua storia ed emerge altresì il suo animo d’artista, discreto e sensibile, riscontrabile non solo nei significativi disegni che richiamano alcuni particolari episodi della ‘bòa’, ma soprattutto nella forza poetica che avvolge il suo racconto fatto di immagini che, mediando tra idealità e realtà, diventano portatrici di pensiero”. Si è accennato al titolo della pubblicazione, vediamone dunque il significato di “atefùlgore”: modo di dire indicante violento sfogo d’ira, grave sconvolgimento naturale, gran quantità. Deriva quasi sicuramente da una delle invocazioni latine “At Fulgore et Tempestate, Libera nos Domine” pronunciate durante le processioni, nell’atto di benedire la campagna con il SS. Sacramento. Ed ecco, sotto il titolo “Tre giorni e tre notti…” l’esordio nella narrazione di Mezzacasa: “Tre giorni e tre notti, tanto, come vedi, questa sera aveva diluviato! A dire il vero erano più di quindici giorni che pioveva a dirotto. Già c’era molta neve, e non di quella buona d’inverno! No! Perché sai, correva ormai aprile! Una nevicata fuori dal solito. Superava ormai abbondantemente i due passi… In un imprevedibile spicchio di silenzio, mentre l’ultimo tuono rotolava a perdersi oltre le cime verso Pramper, e immediato un nuovo fragore si annunciava dal lampo improvviso, imprimendomi negli occhi sbigottiti le fessure del frontespizio sopra la porta, in quell’infimo istante, con accorta scelta di tempo, un flebile soffio di vapore riuscì a dire la sua, sibilando con sollievo i personali problemi da una crepa del ceppo di larice umido che continuavo a rigirare nel braciere…”. E questa la conclusione dello stupendo racconto al quale rimandiamo gli appassionati del genere: “Spostando la coperta, benché indolenzito, mi tirai in piedi afferrando frettolosamente la tabacchiera e, spalancata la gracchiante porta, mi fermai sull’antistante selciato. Lo sguardo frugò fra gli alberi vicini e lontani battendo tutto il visibile mentre trattenevo il respiro, cercando di cogliere qualche rumore. Nessuno, non c’era anima viva. Il quel momento mi accorsi che la terra intorno era arida e polverosa: ‘E il temporale? E l’uomo? E il lungo tormentato racconto?’ Quando, dopo interminabili ed elaborate valutazioni, stavo finalmente convincendomi di un brutto sogno, la riscoperta della tabacchiera, che da un po’ rigiravo inconsciamente fra le mani, spezzò nuovamente il mio filo e rimasi sconcertato a fissare i ghiaioni di Nadèra e Tamer che si alzavano ripidi sulla mia destra. Mentre il fischio altalenante di un subiòt disegnava archi nella limpida aria mattutina, una candida nube libera nel cielo si accendeva del primo sole d’Oriente, tingendo morbidamente di rosa le crépe del Tamer che emergevano vigorose dall’azzurro notturno nel quale era ancora immersa la valle. Ai miei piedi una tortuosa e massiccia radice di abete si snodava a fil di terra come una lunga coda scura perdendosi più in là sul pascolo viscido di rugiada. Dalle profonde fessure dell’anima mi sgorgò allora su lle labbra: ‘Atefùlgore’”. A proposito della “bòa”, la libera enciclopedia Wikipedia scrive: “Nell’aprile 1701 una disastrosa alluvione nota come la Boa colpì il paese: ci furono circa cinquanta morti, oltre alla distruzione dell’antica chiesa che si trovava al posto dell’odierno cimitero. Dopo la Boa, la chiesa fu ricostruita. Altre alluvioni si sono avute nel corso degli ultimi tre secoli, tra le quali: quella derivata da una frana (ancor oggi visibile) sotto il Col Pan d’Ors; quella dell’autunno 1966, che seguì a giorni di intensa pioggia, che danneggiò anche Agordo e molti altri paesi dell’Agordino”. NELLE FOTO (Google e riproduzioni dal libro di Albino Mezzacasa “Atefùlgore”): la copertina della pubblicazione nel disegno dello stesso autore; Albino Mezzacasa; Busa de la Léida; le vile di Fadés e Col Cugnach con la chiesa prima dei tragici eventi; casèra de la Ròa; trecento anni dopo la “Bòa”; El Michiél fuori di sé; la Ninéta morta; la “gisia” antica ed amata; pietraia dove c’era l’edificio sacro; lapide nella chiesa nuova con i voti dei lavallesi dopo il disastro.