LE MONTAGNE NON SONO UNA MERCE
dalla rivista Ellin Selae di Franco Del Moro
…
Ho ascoltato con interesse i concetti di Franco Del Moro” nel contributo audio “Le montagne non sono merce”. Sono cose su cui spesso ho scritto anche io, che ovviamente mi trovano d’accordo praticamente su tutto. La mercificazione e la scarsa cultura e sensibilità stanno facendo e faranno disastri colossali per la montagna. Gli operatori turistici e i politici stanno guardando solo ai grandi numeri, quello gli interessa. Che il maggior numero di persone raggiunga le nostre zone, senza curarsi di chi siano e che intenzioni abbiano. A questi stendono tappeti rossi e su questi pianificano il futuro. Una scelta miope che pagheremo carissima. Luna park montagna è il termine giusto per descrivere la situazione, con un olimpiade alle porte che non potrà che peggiorare le cose se questo è l’andazzo. I veri valori e il vero contatto con la natura saranno sempre più ricercati in futuro, quando probabilmente ci saremo già giocati il territorio e con esso qualsiasi prospettiva.
CLAUDIO PRA, la montagna nel cuore a 360 gradi
Le montagne non sono una merce
Perché abbiamo bisogno di una nuova cultura della montagna
Di Franco Del Moro
(pubblicato su Ellin Selae n. 145)
Quassù non vivo in me,
ma divento una parte di ciò che mi attornia.
Le alte montagne sono per me un sentimento.
George Gordon Byron
Avreste dovuto sentirla, questa estate, Radio Più (1), quando ogni giorno apriva il notiziario principale delle dodici e trenta con l’elenco degli interventi delle ultime ventiquattr’ore del Soccorso Alpino. Un rosario quotidiano di persone salite in montagna ma, a un certo punto, non più in grado di scenderne, per i più svariati motivi: sentieri persi nelle nuvole basse, slogature, scivoloni, collassi, sfinimento, malesseri… persino ciclisti addentratisi fra gli alberi schiantati da Vaia (2) e non più in grado di tirarsene fuori; senza differenze di età o sesso: dai ventenni agli ottantenni, ragazzi, uomini, donne… Prima ancora di ferragosto si era già registrato un record: oltre 500 le uscite del Soccorso Alpino per recuperare alpinisti alle prime armi o escursionisti impreparati, e questo solo sulle Dolomiti. Forse avere in tasca lo smartphone e sapere che basta digitare 3 numeri per essere riportati a casa da un elicottero o da una jeep è una scorciatoia a cui non è facile resistere alla prima difficoltà incontrata…
Il problema non riguarda certamente soltanto le nostre montagne. Da quando nel 1953 Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay raggiunsero per la prima volta la cima dell’Everest, ad oggi sul tetto del mondo sono già salite più di ottomila persone – l’equivalente di una piccola cittadina – , molte delle quali trascinate di peso dagli sherpa, senza contare gli oltre 40mila trekker (più gli sherpa), che ogni anno raggiungono il campo base nepalese lasciandosi alle spalle tonnellate di rifiuti (3).
È lecito chiedersi di cosa sono indice questi numeri in costante crescita: di un incremento d’amore per la montagna? Del richiamo della natura incontaminata?… Io non credo. La pubblicazione online del selfie scattato sulla vetta, l’ostentazione della performance, l’esibizione pubblica del proprio fisico, l’iper-attivismo sportivo come ostinato rifiuto dell’invecchiamento… tutto questo non mi pare testimoni un legame spirituale con le montagne, quanto piuttosto un incremento del culto del corpo e del narcisismo che si cela dietro, componenti tipiche della cultura della nostra epoca.
Non sono l’unico a pensare che le montagne non sono palestre, ma santuari della Natura, e quando si frequentano ambienti preziosi e delicati, come le valli alpine, non lo si deve fare in alternativa al campo sportivo, o per fare egosurfing (autocompiacimento, ammirazione di sé), ma per avvicinarsi a quella sfera della vita che confina con il sacro. Julius Kugy, l’alpinista triestino vissuto a cavallo fra 8 e ‘900, amante della musica e della botanica oltre che delle montagne, disse: “ Non cercate nelle montagne un’impalcatura per arrampicare, cercate la loro anima.”
Oggi questo monito vale assai più di allora.
I gestori dei rifugi e le guide alpine già da qualche anno denunciano la superficialità dei chiassosi “merenderos”, ossia di chi va in montagna con lo stesso spirito di chi passa la domenica in un centro commerciale, e degli alpinisti mordi-e-fuggi, per lo più cittadini, che si accostano alle ferrate e ai sentieri con una mentalità consumistica, dove le tappe e le cime sono solo trofei da collezionare nel minor tempo possibile. E l’infinito numero di fazzolettini e salviette di carta gettati a terra (fatti per lo più di fibre sintetiche), che si trovano ovunque lungo i sentieri, testimoniano che i moderni montanari hanno un rapporto distorto con l’ambiente alpino, e il rispetto per la montagna non rientra più nel bagaglio del turista moderno.
Negli anni ’60 Dino Buzzati raccontò di un gruppo di 6 escursionisti, deciso ad attraversare a tutti i costi il ghiacciaio sopra Cervinia, rimasto intrappolato da una improvvisa tormenta. Nel tentativo di ritornare a valle il gruppo si disperse e 2 di loro morirono. Fra i superstiti una donna che, una volta rifocillatasi, chiese di poter recuperare la macchina fotografica che aveva lasciato al bivacco a cui non voleva rinunciare per nulla al mondo. A risalire per lei la montagna furono il noto alpinista Achille Compagnoni, il capo dei soccorritori e un brigadiere dei carabinieri. Così racconta Buzzati il seguito della vicenda: “Fra lo sbalordimento di tutti, come ebbe riavuto il suo sacco e la sua preziosa macchina fotografica, quella donna imperturbabile, come se assolutamente nulla fosse successo, inforcò gli sci, ringraziò, saluto e giù, sola soletta verso Zermatt.” (4)
All’epoca l’atteggiamento di quella escursionista, del tutto indifferente alla tragica morte dei suoi compagni di gita, fece scalpore, non si era ancora abituati all’individualismo e alla protervia del nuovo Millennio, e le persone che andavano in montagna riconoscevano ancora la sacralità dei luoghi, erano intimamente attratte da quella sensazione di vastità che la montagna offre e che lascia intravedere qualcosa di più grande.
Che fine ha fatto quello spirito? Oggi l’unico approccio proposto alle montagne, anche dalle riviste specializzate, sembra essere quello legato alla prestazione sportiva: d’inverno lo sci, d’estate l’arrampicata e, sullo sfondo, l’idea di sfida, di lotta, di conquista, in un esasperato antropocentrismo che suscita frequenti atti di inciviltà e vandalismo, atteggiamenti un tempo assai rari fra i frequentatori delle montagne. (5)
È davvero questo, e solo questo, ciò che oggi significano le montagne? Piste da sci, ski-lift, pareti su cui piantare chiodi e rifugi approntati come ristoranti a 4 stelle?
Sembra non interessare più a nessuno, o forse si è soltanto perduta, la visione delle montagne come luoghi dell’anima. Eppure è questo che ancora oggi sono, perché a essere cambiato è il nostro modo di vivere, non le montagne.
Questa subcultura della montagna è senza dubbio figlia dei nostri tempi e, certamente, è una piaga assai più estesa che va al di là di monti e valli, si ritorce anche contro il mare, ad esempio, che viene ridotto da culla e cuore pulsante della vita, ad enorme luna park per cittadini in ferie in cerca di piaceri e divertimento a buon mercato.
Il turismo di massa, la mercificazione degli ideali, il narcisismo imperante del Terzo Millennio… tutto questo ha cambiato non solo le forme relazionali delle persone fra loro, ma anche con il resto del creato. Ha sdoganato l’arroganza come normalità se non addirittura come virtù, e nulla sembra andare oltre la ricerca del piacere immediato, del tutto-e-subito in ogni campo dell’esistenza, da quello materiale a quello spirituale: si fanno corsi pretendendo di ottenere in poche ore quello che dovrebbe essere il frutto della dedizione di una vita intera, si usano le persone – in forma persino inconsapevole – per un personale tornaconto, e l’unica spinta vitale riconosciuta e socialmente premiata è l’ambizione, l’affermazione di sé a qualunque costo.
È inevitabile che da queste premesse emergesse la fisicità esasperata e fine a sé stessa dei nostri giorni. Guardatevi attorno: vedrete ovunque persone incapaci di stare ferme, che corrono, pedalano, arrampicano, si alzano, si abbassano, tirano, spingono e si esaltano in ogni momento libero, nel tentativo di rinnegare il tempo che passa e compiacendosi delle loro prestazioni fisiche come se queste avessero una speciale utilità collettiva, ignari che i loro sforzi sono vani, perché il tempo continuerà a passare comunque, e, soprattutto, che esiste una forma di apprezzamento della vita che trascende il costante allenamento fisico.
Coltivare la capacità di immersione contemplativa e creare un legame profondo con il creato è un traguardo assai più nobile dell’apertura di una nuova via di arrampicata o del numero di chilometri percorsi, e la montagna è, da questo punto di vista, in grado di offrire moltissimo a chi percorre i suoi sentieri con questo spirito. Inoltre questo rapporto con la natura, a differenza del tono muscolare, si rafforza con il passare del tempo, perché anche l’anima, come gli alberi, acquista maestosità quanto più le sue radici vanno in profondità.
Ma tutto questo sembra essere oggi lontanissimo dalle intenzioni di chi va in montagna.
Perché? E cosa possiamo fare per evitare che le cose peggiorino?
Partiamo da un presupposto positivo: la natura di ogni essere è intrinsecamente buona; gli istinti naturali, i primi che si manifestano alla nascita, sono tutti compassionevoli: ogni bambino ama gli animali, la natura, la musica, il disegno, la danza e tutte le espressioni artistiche, e sa che gli angeli esistono. Il progetto di ogni vita è all’origine perfetto. Ma non passa molto tempo da quando subentrano a condizionarlo forze esterne che hanno obiettivi meno nobili, che spingono le persone verso il fondo, perché dalla superficialità e dall’ignoranza queste forze traggono enormi profitti. Il loro obiettivo è scollegare le persone dalla loro vera natura introducendo una infinità di condizionamenti sociali e culturali che fanno leva sulle vibrazioni più basse dell’ego. Il loro progetto è creare un mondo di narcisisti, dove la spinta vitale dominante sia sempre più la competizione, non certo la contemplazione, e il rapporto con la realtà è basato sul dualismo, dove conta solo l’illusione della pura apparenza e del successo, in una patologica fissazione sul sé.
Se questo disegno arriverà a compimento (e ultimamente non sembra manchi molto) ci ritroveremo a vivere in un mondo irreversibilmente avvelenato tanto sul piano spirituale quanto su quello ambientale, perché i due aspetti sono strettamente connessi, e a quel punto le montagne verranno ricoperte di parcheggi, asfalto e cemento, per permettere a visitatori sempre più prepotenti e incivili di usarle come parco giochi del fine settimana.
Molti avvertono questo pericolo e fortunatamente reagiscono sviluppando una coscienza ambientalista e cercando di adottare stili di vita più sostenibili. Sarebbe un errore se questo desiderio di cambiamento si rivolgesse alla politica (che tanto non è in grado di cambiare i suoi schemi), perché si tratta di un bisogno naturale, che prima ancora di avere a che fare con la coscienza ha a che fare con l’anima, che resta ancora oggi, nonostante tutto, desiderosa di compassione, di bellezza e di saggezza.
Quello che l’anima cerca quando va in montagna è ciò che i buddhisti chiamano dzogpa chenpo: la Grande Perfezione Naturale, che trascende il dualismo ed entra nella vastità luminosa del creato, dove l’affermazione e la spettacolarizzazione di sé non hanno alcun valore.
La strada da percorrere deve dunque essere quella che porta a una riscoperta di quei valori senza tempo che si stanno perdendo, coniugarli con questa nuova sensibilità, e costruire una nuova cultura della montagna, oltre che una nuova concezione della vita stessa.
Alcune cose del vecchio mondo potranno essere abbandonate (ad esempio la caccia, che nel nostro tempo non ha più alcuna ragion d’essere né scuse culturali), e sostituite da nuove forme di consapevolezza: il riconoscimento degli animali come esseri viventi con dignità e diritti pari ai nostri, l’accettazione che ogni cosa del regno animale vegetale e minerale sia viva (perché l’anima non è dentro di noi, noi siamo dentro l’anima), e che le montagne siano dunque, in una forma e in un modo che forse ancora non comprendiamo, esseri viventi che soffrono e reagiscono se maltrattate e offese. Questo porterà spontaneamente a una nuova visione dell’ambiente che ci ospita e a un maggiore rispetto dei santuari naturali fatti di boschi, roccia e a acqua.
Quando questo accadrà non avremo più il coraggio di gettare fazzoletti di carta per terra, sparare agli animali per divertimento, arrampicarci sui sentieri con mezzi motorizzati o guardare il paesaggio attraverso lo schermo dello smartphone…
Abbiamo dunque bisogno di imparare a donare alle montagne la parte migliore di noi, e scopriremo così che le montagne ci daranno in cambio un bene molto più grande: ci faranno ritrovare noi stessi, la nostra vera natura, quella di quando eravamo fanciulli. E tutto il resto, quella apertura luminosa che abbiamo sempre desiderato e sperato di trovare nella vita, verrà da sé.
NOTE
1 – Storica radio libera delle Dolomiti molto attenta al territorio e alla vita delle comunità montane, la si può ascoltare anche in streaming dal sito: www.radiopiu.net/wordpress
2 – Vaia è il nome dell’uragano abbattutosi sulle Dolomiti il 29 ottobre 2018 – v. l’articolo “A cosa si pensa durante (e dopo) un uragano?” di F. Del Moro su Ellin Selae n. 141;
3 – Riporta il numero di Agosto 2019 di “Montagne 360”, la rivista del CAI: “Fra aprile e maggio una squadra di sherpa, incaricati dal Nepal’s Tourism Department, ha rimosso cinque tonnellate di rifiuti dalla montagna e altre sei dai dintorni del campo base.”
4 – “Il freddo uccide due tedeschi su un ghiacciaio sopra Cervinia” di Dino Buzzati, in “I fuorilegge della montagna”, edizione Mondadori.
5 – Il sovraffollamento e l’inciviltà dilagante degli alpinisti ha spinto nel 2019 la Prefettura francese dell’Alta Savoia a limitare gli accessi al Monte Bianco, non solo per ridurre il numero degli incidenti causati da un approccio inadeguato alla montagna, ma anche per tutelare l’ambiente naturale del ghiacciaio gravemente compromesso da un turismo di massa superficiale e frettoloso.