di RENATO BONA
Risale al giugno del 1978 l’iniziativa del benemerito Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali che, per la serie “Storia” diede alle stampe con la tipografia Piave, il libro a cura di Aldo Belli dal titolo:”Documenti di storia. Cadore Zoldo e Alpago” il cui tema principale sono le invasioni, anche se non mancano pagine di emigrazione, di costume e di calamità varie. Gli autori sono stati: Giovanni De Sandre Colombo, Giovanni Belli Nodaro, Antonio De Lotto, Nicolò De Sandre Colombo, Augusto Serafini e Giuseppe Menegus Pelà. In questa occasione ci occupiamo del capitolo “Ricordi della invasione 1917-1918 a Vodo e in Zoldo”, del quale è stato autore Augusto Serafin. Questi – come ha giustamente ricordato Aldo Belli – insegnò nelle scuole elementari di Fusine per oltre un decennio alla fine del secolo scorso. Poi passò a insegnare a Vodo. Nel 1917-18, mentre a San Vito il suo collega e compare maestro Matteo Del Favero Goluto scriveva il diario pubblicato da Mario Ferruccio Belli, lui a Vodo ne scrisse uno simile. Quindi una precisazione: “Ho avuto dal figlio Serafino l’originale e ne ho tratto copia fotostatica. Il diario è stampato senza correzioni, ma togliendo lunghe pagine di riflessioni politiche, patriottiche e moralistiche che non interessano al nostro scopo di raccogliere notizie sulla vita della nostra gente nei momenti più drammatici. Ho lasciato invece le pagine dove parla dello Zoldano per un utile confronto tra le vicende delle due vallate”. Ed ecco una sintesi dei ricordi di Serafin a proposito dell’invasione austriaca avvenuta nell’ottobre 1917 e durata fino al 3 novembre del 1918: “Sono a Vodo del Cadore. Cominciai il quarantesimo anno di scuola il lunedì 1. ottobre. Il 2 e il 3 feci la scuola; ma dal 4 in avanti, fino ai primi di dicembre, si fece vacanza per causa dell’invasione austriaca. Nessuno avrebbe creduto di vedere nuovamente gli Austriaci in queste terre; ma, fa male doverlo dire, ormai l’indisciplina era entrata nel nostro esercito; e così doveva avvenire con vergogna e danni, dei quali sarà ben difficile fare un calcolo esatto”. Ancora all’esordio: “Li vedevo io passare per il Cadore con fare spavaldo, i nostri soldati, come volessero dire: – Presto getteremo le armi; e quelli che vollero la guerra, se la faranno. Non sembra vero: molte madri e molte mogli dicevano quasi pubblicamente ai loro figli e mariti: – Rifiutatevi di combattere, e così la guerra avrà fine”. Del 3 novembre una notizia: “Il Provveditore agli Studi di Belluno telegrafa ai municipi che i maestri non credano a ciò che si racconta, ma che restino saldi al loro posto e continuino sereni l’opera loro; e molti, come me, sono rimasti”. Appunto che si chiude con una nota polemica: “E tu, caro signor Barilli, tu, ti sei fermato? Sei stato fermo tu e l’hai continuata con serenità, tu, l’opera tua?”. Ecco la ritirata: “4 novembre:…è un continuo andare e venire per mettere al sicuro più roba che si può, onde non resti al nemico… E’ tutto un febbrile movimento, mi alzo verso mezzanotte, vado già nella strada dove passano battaglioni su battaglioni e gran numero di carriaggi, domando del battaglione Val Piave, nel quale sono i miei figli Tiziano e Giuseppe… attendo e con me attendono molti padri e molte madri piangenti per abbracciare, forse per l’ultima volta, i propri figli. Verso le 7 di mattina del 5 giungono i miei figli, sfigurati dal dolore e dall’indignazione per i fatti di Caporetto. Stanno con me fino alle sera, poi partono, scongiurandomi che io stesso li avessi seguiti. Il figlio Romano non lo potei vedere, perché da alcuni giorni era stato trasportato dal Val Piave al 24. Fanteria, dove faceva il corso da ufficiale; né potei vedere il figlio Giovanni, che era di raggruppamento alpino nella valle del Cismon. Tosto che gli ultimi soldati nostri furono partiti da Vodo, il paese piombò nella disperazione… E’ notte, i miei figli sono partiti, e Dio sa, se più li vedrò. E’ da impazzire; non so cosa fare, dove andare. La notte è nera e tetra. Continua a passare gente di Cancia, di Borca, di San Vito: partono anche molti di Vodo con carri tirati da cavalli e con carri a mano; pare il finimondo…”. Il toccante, drammatico racconto prosegue con Serafini che ricorda: “… Mi sento assalito dallo scoraggiamento, penso alla famiglia; e, come pazzo, parto per Zoldo, prendendo la via della montagna. Quando sono un po’ in su, vedo distintamente le fiamme a Peaio e a San Vito (sono i magazzini militari che ardono – ndr.); e da laggiù, nella valle, odo gridi di disperazione, vedo lumi che vanno e vengono, e sento i belati del bestiame libero per la campagna; certo il bestiame delle famiglie partite. Dopo un viaggio faticoso e pericoloso, e in mezzo a tenebre fitte giungo in Zoldo a mezzanotte. Qui tutto era silenzio, come se ciò che avveniva in questi momenti fosse da tutti ignorato. Alla mattina alle 6 mi alzo e vado a portare, dove posso, i saluti a quei genitori, a cui tanti poveri giovani mi avevano raccomandato e pregato, passando per Vodo. In Zoldo sono ancora i nostri soldati. Molti di essi lavorano anche di notte per rafforzare i ponti sul Rutorto, nella speranza di poter asportare del materiale dal forte di Rite. Lavoro inutile perché nulla si ebbe tempo di levare” Annotazioni del 7 novembre: “I figli Silvio e Mario sono partiti questa sera. Il giorno dopo seppi che pernottarono a Mezzo Canale e che la mattina dopo partirono da Longarone coll’ultimo treno poco prima che si facesse saltare il ponte della ferrovia sul Maè. Il primo di questi miei figli, segretario del nostro Comune, avrebbe dovuto presentarsi come soldato il giorno 5; l’altro di 17 anni, doveva essere fatto militare colla prossima leva. Perché non cadessero nelle mani degli Austriaci, probabilmente come prigionieri di guerra, li ho fatti partire. Così potranno giovare ed essere utili alla Patria. A vederli partire, come gli altri due che son passati per Vodo, mi sentivo staccare le viscere. Tanti, nelle identiche condizioni, partirono con essi; ma molti altri, e di quelli anche che si trovavano in licenza e che avrebbero potuto e dovuto farlo, forse consigliati dalle buone madri e dalle brave mogli, se ne stettero fermi. Dappoi però, com’era da prevedere, furono presi dagli Austriaci e trascinati prigionieri nella monarchia amburghese, dove patirono ogni specie di privazioni e di disagi, e dove tanti lasciarono la pelle, sa Iddio, in seguito a quali strazi”. Resta da dire che i “Ricordi” di Augusto Serafini, preziosa testimonianza storica di vita vissuta in momenti di vita a dir poco grama, sono riportati in numerosi altri capitoli dello splendido libro: “Il bombardamento di Vodo e la quiete in Zoldo”; “Un superstite del 1848: Matteo Santin da Casal”; “Requisizione del bestiame”; “Passano i nostri prigionieri affamati, laceri e sporchi”; “Requisiscono le campane”; “Requisiscono la biancheria”; “Requisiscono legname”; “Cresce la fame e crescono i furti”; “Passano in fuori molti cavalli e in dentro molti treni di feriti”; “Il rombo del cannone e il rullo degli aerei”; “Requisiscono il fieno”; “Requisiscono il ferro vecchio e i cenci”; “Requisiscono le patate”; “Requisiscono i materassi e i cuscini di lana”; “La ritirata dallo Zoldano”; “La ritirata vista da Vodo”.
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro di Aldo Belli “Documenti di storia. Cadore Zoldo e Alpago”): Augusto Serafin, autore di “Ricordi della invasione austriaca a Vodo e in Zoldo 1917-1918” (immagine di proprietà di Gino Fiori); la famiglia di Augusto Serafin da sinistra il figlio Tiziano (1892), il figlio Virgilio (1885) e il figlio Giuseppe (1894), in mezzo la moglie Domenica Lazzari che ha per mano il nipote Giulio Serafini (la foto è stata scattata a Dozza di Zoldo, davanti alla porta della casa paterna nel 1916, poco prima di Caporetto); anno 1898, scuole di Fornesighe: pluriclasse davanti alla casa Costantini (immagine di proprietà di Gino Fiori); panoramica di Vodo di Cadore (immagine di proprietà di Francesco Del Favero).