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C’erano una volta i bivacchi utilizzati come strutture di emergenza in caso di bisogno o come punti d’appoggio per chi si trovava in quota per attività legate alla montagna (traversate, arrampicate ecc.), strutture dove di tanto in tanto anche qualche semplice appassionato si fermava per passarci la notte dopo un’escursione. Erano i tempi lontani dall’overturism e dell’alta quota cercata esclusivamente da chi l’amava sul serio, gente rispettosa ed esperta dell’ambiente in cui si muoveva. Oggi tutto è cambiato e l’uso moderno e distorto che si fa dei bivacchi è spesso al centro di discussioni. Riassumendo l’attuale situazione potremmo dire che si è affermata una moda, alimentata in special modo dai social, che spinge al pernotto nei ricoveri, un’experience (come la si chiama oggi) tutta da vivere. Spesso non è più una vetta la meta, ma proprio il bivacco, da dove postare un selfy trandy vantandosi di aver pernottato e magari fatto festa in compagnia. Non vale ovviamente per tutti, ma questi probabilmente sono i veri motivi che spingono tanta, troppa gente fin lì. Niente di male dirà qualcuno, se non fosse che i bivacchi sarebbero concepiti, come già ricordato qualche riga sopra, a strutture di emergenza o punti di appoggio. Questo cambio di destinazione, perché è di questo che si tratta, con processioni impressionanti in cammino verso i vari ricoveri (al Margherita Bedin, provvisto di 9 posti letto, incontrate 50 persone che intendevano passarvi la notte), stravolge il motivo per cui sono nati. Ci sono veri e propri usufruitori seriali di bivacchi, che si fermano anche per più giorni, impedendo a chi ne ha veramente bisogno di programmare l’uso della struttura. La regola, ma solo di buonsenso, reciterebbe che questi ultimi avrebbero la precedenza sugli altri che dovrebbero cedergli il posto. Ma figurarsi se viene rispettata da gente che probabilmente non sa neanche che esista un tale regola o che la rifiuta. E qui ci si collega al discorso della modificata frequentazione della montagna negli ultimi anni, con l’arrivo in quota di tante persone assolutamente digiune di una minima cultura montana, spesso impreparate, che se il gps non gli funziona sono persi perché nemmeno sanno cos’è una cartina. Quelli che le immondizie lasciate sul posto passerà qualche volontario per portarle a valle, che non si prendono la briga di informarsi su un mondo fragile di cui sanno poco o nulla e che per loro va solo sfruttato seguendo una moda. Le loro uniche fonti sono Youtube, FB o Istagram. Questi nuovi “appassionati” si impadroniscono dei bivacchi come se la cosa fosse normale, dando vita a una forma di nuovo turismo montano. Vagli a spiegare che non è quello l’uso che se ne dovrebbe fare…Ti danno dell’antiquato (boomer secondo il loro linguaggio), che non si adegua alle moderne esigenze. Dicevo all’inizio che di questa problematica si parla da qualche anno, ma al di là di tanti sfoghi e belle parole non si vede soluzione. Ormai diamo per scontato che debba andare così? Non c’è proprio nulla che si possa fare? Diamo per assodato che i bivacchi si trasformino in dormitoi per turisti in cerca di emozioni? Il CAI, proprietario delle strutture e a cui sono associato, come la pensa in proposito? Vale ancora la pena installare o rimodernare bivacchi in luoghi relativamente facili da raggiungere sapendo l’ uso che se ne fará o è meglio concentrarsi esclusivamente su quelli che sorgono in luoghi isolati e lontani che ne giustificano la presenza? Il recente posizionamento di un bivacco sul Pelmo, in questo contesto, fa riflettere.
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