“Maresio Bonaventura (1526-1580). Frate dei Minori conventuali (l’Ordine è un istituto religioso di diritto pontificio; i frati di questo ordine mendicante, detti francescani conventuali, pospongono al loro nome la sigla Ofm Conv; il fondatore fu Francesco d’Assisi nel 1525), letterato, teologo e poeta. Fu eletto provinciale dell’Ordine per i suoi meriti nel riordino di vari conventi in Polonia”. Così si può leggere in “Toponomastica di Belluno”, pubblicazione edita dal Comune nel 1990, a proposito dell’intitolazione di una via, in zona Mussoi, al nome del personaggio di cui ci occupiamo. Che è stato frate francescano conventuale ed inquisitore del XVI secolo, partecipò al Concilio di Trento in qualità di assistente teologo del generale del suo Ordine, Antonio de’ Sapienti, e fu oltre che Visitatore apostolico in Polonia per conto del suo Ordine, il secondo Inquisitore di Belluno essendo subentrato nel 1566 a Domenico Fortunato, e restò in carica per la bellezza di 40 anni! Prescindendo dalle sue qualità di letterato, teologo e poeta ci occupiamo di lui per la singolare vicenda che lo vide protagonista nei confronti del parente, il francescano Giulio Maresio (Belluno 1522-Roma 1 ottobre 1567), che da Bonaventura fu inquisito e, dopo un altro procedimento, stavolta dell’Inquisizione romana, venne condannato a morte per eresia e giustiziato. A proposito di Giulio, la libera enciclopedia Wikipedia ricorda che “Nato in una famiglia colta e benestante, dal 1530 studiò a Bologna sotto il teologo francescano Domenico Fortunato il quale, segretamente aderente alle dottrine riformate, gli fece conoscere testi di autori protestanti come Lutero e Melantone”. Giulio Maresio si trasferì a Padova nel 1540 per studiare teologia con i docenti Francesco Capodilista e Giovanni Lippomano e proseguì l’approfondimento delle dottrine protestanti. Una sua lettera compromettente (copia della Postilla di Antonio Corvino), inviata nel 1546 al fratello sacerdote Francesco, finì nelle mani proprio del suo insegnante di ginnasio Domenico Fortunato, nel frattempo nominato inquisitore, il quale tuttavia non aprì alcuna inchiesta a suo carico. E proprio a Fortunato il Maresio successe come guardiano del convento francescano di San Pietro di Belluno, dove era tornato, prendendovi i voti, dopo la laurea in teologia conseguita a Padova il 17 marzo 1550. Qui fu scoperta la sua eresia e il Maresio andò a giustificarsi a Roma, da dove il cardinale Bernardino Maffei lo rimandò all’Inquisizione di Venezia per esservi processato. Riconosciuto colpevole di negare il purgatorio, il libero arbitrio e l’efficacia delle opere, abiurò il 31 dicembre 1551 e fu confinato per cinque anni nel convento di San Pietro di Cracovia. Ancora: nel 1556 conobbe il francescano Francesco Lismanini, confessore della regina di Polonia, Bona Sforza, ma da tempo convertito al calvinismo: Maresio abbandonò il saio e, con l’aiuto economico del Lismanini, partì per Zurigo dove avrebbe potuto meglio approfondire le dottrine riformate. Qui conobbe molti esuli italiani, come Lelio Socini, Bernardino Ochino, Pietro Martire Vermigli e Giorgio Biandrata. Nel 1558, alla notizia della morte del padre, il Maresio decise di ritornare a Cracovia per rientrare nel proprio Ordine religioso e potere poi far ritorno a Belluno. A questo scopo presentò al nunzio in Polonia Berardo Bongiovanni un memoriale nel quale giustificava i suoi sbandamenti nella fede cattolica con l’istruzione eterodossa ricevuta nella prima gioventù dal teologo Fortunato. Assolto dal nunzio il 17 agosto 1560, dovette tuttavia rimanere nel convento di Cracovia. Quando, sei anni dopo, ottenne il permesso di rientrare in Italia, fu arrestato: l’inquisitore di Belluno che lo accusò di eresia era il suo parente Bonaventura Maresio (attivo anche nel processo Colotto a Feltre e nel 1600 è documentata una sua lettera di istruzioni al tribunale feltrino. La data effettiva di affidamento della competenza sulla diocesi di Feltre non è conosciuta. La sede inquisitoriale di Belluno fu soppressa il 28 luglio 1806 con decreto vicereale del Regno d’Italia) che contestava tra l’altro il possesso di testi di teologia di Lutero, Melantone, Calvino, Guillaume Postel, ma anche di libri di cultura umanistica che avevano però il torto di essere commentati da personalità della Riforma, quali l’Hebreae gramaticae compendium di Francesco Stancaro, le Annotationes in Horatium di Heinrich Glarean e i Commentaria in Georgicam di Jodocus Willich. Il processo fu avocato dall’Inquisizione romana, che si oppose alle richieste della Repubblica veneziana di far processare il Maresio dalla propria Inquisizione. A Roma era in corso il giudizio contro Pietro Carnesecchi ed entrambi gli imputati ebbero la sorte di essere processati dagli stessi giudici, i cardinali Bernardino Scotti, Scipione Rebiba, Francisco Pacheco e Gianfrancesco Gambara, che il 21 settembre 1567 emisero eguale condanna di morte. Al Maresio fu contestato di negare la presenza reale di Cristo nell’eucaristia e il primato papale oltre, come nel primo processo, il purgatorio, il libero arbitrio e l’efficacia delle opere. Davanti al ponte Sant’Angelo fu allestito il patibolo e il 1. ottobre 1567 Maresio e Carnesecchi furono decapitati, i cadaveri bruciati e le ceneri disperse nel Tevere. Secondo l’ambasciatore veneziano Paolo Tiepolo, Maresio “morì assai disposto, confessato e comunicato”.
NELLE FOTO (Renato Bona, sito: capgenofmc.org e Wikipedia): la sessione 202 del capitolo generale; la via che a Belluno porta il nome di Maresio; la targa con l’intitolazione; convento e basilica dei santissimi apostoli a Roma, sede dell’Ordine dei frati minori conventuali; inizio del Concilio di Trento del 1545 cui partecipò Bonaventura.