di RENATO BONA
Cima Gogna, il Comelico, in particolare Santo Stefano di Cadore, e Sappada (ora facente parte del Friuli) sono i “protagonisti” di una nuova tappa del “viaggio” che stiamo compiendo guidati dal libro “Un saluto dal Cadore” con vecchie cartoline della raccolta Benito Pagnussat, testo e commento del giornalista di Perarolo, Fiorello Zangrando, edito nel 1981 da Bepi Pellegrinon con Nuovi Sentieri in collaborazione con Eronda graphic design studio, Monticelli di Padova per la foto selezione, e la bolognese Grafiche Tamari per la stampa. La vecchia cartolina a colori datata mercoledì 29 agosto 906, è così illustrata da Zangrando: “Qui si facevano le abluzioni. Coi capitali auronzani si mise in piedi una specie di abitacolo moresco composito, buono per consentire l’utilizzo delle acque minerali. Il turismo, si sa, è fatto anche di terme. Altrimenti Cimagogna, laggiù, non sarebbe mai balzata alla ribalta”. Segue la cartolina di P. Breveglieri relativa a “I tre Ponti – Presso lo stabilimento Climatico Balneare di Gogna” con questa dicitura: “Una volta l’ingegneria era anche questo, riuscire a incastrare due ponti. Per consentire il flusso ad un trivio. Per smistare il traffico dei transiti da sud a nord e viceversa e anche verso Vigo e compagnia. Adesso è tutt’altra cosa, ovviamente. Ma neanche questa soluzione…”. Terza foto proposta quella di Mariani intitolata “Cadore – La Gola del Piave” con didascalia in cui si legge: “Da Cimagogna la strada mena a destra seguendo il corso del Piave. E arranca con fatica, ed è intagliata nella montagna. Strapiombi da una parte, roccia dall’altra. Porta a paesi che spesso restano reclusi dal resto del mondo tanto e tanto tempo. Be’, adesso è meglio”. Pure del bellunese P. Breveglieri la foto de “I due Ponti presso S. Stefano di Cadore” accanto alla quale è scritto: “Ma arrivarci, a Santo Stefano e quindi in Comelico, non è ancora molto agevole. Da Calalzo in su occorre pur sempre affidarsi ai mezzi tradizionali, quelle carrozze a cavalli che tanta storia anche loro hanno scritto. E poi la valle è insidiosa, e per percorrerla occorrono mille accorgimenti”. Segue la panoramica “Santo Stefano di Cadore, in alto Costalissoio” con la spiegazione: “Adesso la strada che vi porta è più aperta. Santo Stefano respira meglio. Pare adagiato tranquillo sulla sponda del Piave. Il suo verde di carducciana memoria è appena siglato dalle coltivazioni e dalle rare abitazioni. Ma Costalissoio occhieggia lassù, abitazioni che sembrano formiche”. A Santo Stefano appare il “Grand Hotel Aquila d’Oro m. 1000” con l’autore del libro che scrive: “Bell’esempio di contraddizione tra due realtà (donna e uomo (maschilismo olè) che vanno ad attingere l’acqua alla fontana, e dietro un grande palazzo adibito ad albergo. Siamo a mille metri sul mare ed è giusto, allora, che si intitoli all’aquila d’oro. L’ospitalità che si fa industria”. A proposito della “Piazza di S. Stefano di Cadore”, del Breveglieri, ecco Zangrando: “Capitale del Comelico, Santo Stefano è ancora, tutto sommato, un borgo abbastanza semplice. Soltanto la chiesa parrocchiale sembra dominare l’assieme architettonico. Il resto è composto di case buone e caratteristiche, ma prive di pregi particolari. Lo sviluppo, però, batte alla porta”. Altra cartolina a colori, datata 17.8.1889: “Cadore. S. Stefano colla Vallata di Candide” per la quale si legge: “Ma Santo Stefano, proprio perché è la capitale del Comelico, ha il dono di sapere e potere spaziare oltre i confini comunali. Come qui, quando il non mai abbastanza lodato Breveglieri lo coglie nel momento in cui guarda verso l’alto, verso Candide. Anche se il ‘maquillage’ è evidente”. Ed ecco Campolongo, a quota 950, stesso fotografo e questa illustrazione: “Campolongo fatto di poche case e di poche cose. Un fiume, il Piave, all’apparenza disciplinato, le case distribuite con semplicità attorno alla chiesa. Attirano l’attenzione quei ciuffi di alberi, sotto e sopra, che non si capisce bene come siano rimasti in piedi. Tra stenti e casualità”. Segue l’immagine del “Primo ponte Fiume Piave” di cui Fiorello Zangrando scrive: “C’è poco da dire. La grande targa del primo ponte sul Piave immette perentoriamente Sappada in Cadore. L’aggregazione è tuttora controversa ma è già positivo che ci sia una testimonianza a favore della ‘cadorinità’ di questo centro. Del resto, il Piave nasce proprio quassù”. Proseguiamo con “Sappada-Veduta generale” e il commento del giornalista: “Vista così dice poco. Ma quella di Sappada è una gran bella valle, E’ un’isola tedesca colonizzata da agricoltori che vi capitarono per sottrarre alle angherie dei signori della vicina Sillian. Scelsero bene, mille anni fa. E per secoli hanno saputo amministrare bene le loro risorse”. Tocca ora all’immagine “Un saluto da Sappada (Belluno) Gruss aus Bladen” col commento: “Fin de siècle, senza tanti fronzoli però. La grande chiesa arcipretale, le borgate sparse senza disordine, ecco Sappada che conserva ancora una serie di tradizioni, di lingua e di costumi che sono patrimonio vivo della sua gente. Ma forse anche degli altri, di chi le si avvicina”. Restiamo in zona per un’immagine-documento intitolata: “Sappada – Belluno a. m 1300 – Borgata Bach dopo l’incendio” di cui si legge: “Erano tempi brutti quando un paese andava a fuoco come Bach. Provvidenze erano disposte con contagocce e senza leggi speciali. Quando resta lo scheletro di n paese sono problemi grossi da risolvere. Vuol dire reimpiegare ciò che si era messo via per migliorare, e che ora sfuma”. Segue “Borgata Lerpa a Sappada nel Cadore” con la spiegazione: “Tipico quadro agreste con le capre nel mezzo della strada, tanti muri a secco, steccati di recinzione che ritmavano una vicenda contadina d’alta quota con diesis e bemolle saggiamente intrecciati. E’ la porta che dal Cadore si apre verso la Carnia. Sappada che ha due occhi”. Ma “Sappada – dice la didascalia della foto-cartolina di Breveglieri intitolata “Sappada – Cadore m. 1250” – ha anche tutti i requisiti per presentarsi senza timore di riflusso come paese contadino, con tutte le masserie del caso, bestie e uomini compresi. I milleduecentocinquanta metri sono tanti, ma la vallata è ampia e solatia, la terra feconda, la volontà umana tenace”. A seguire, l’immagine dal titolo: “Cima (Sappada Cadore) a. m. 1300” accompagnata da queste parole: “Qui, a Cima Sappada, siamo davvero ai limiti della geografia e dell’economia seria dell’area montana. Per fortuna che chi ci è venuto ha alle spalle tante di quelle generazioni (diciamo 50, 10 per 20) che non lo blocca la paura del precario. Anzi, con la terra scende a patti”. Siamo alla Borgata Cima Sappada con le abitazioni di legno e i poggioli di legno, e i tetti di legno, e il legno da ardere e da costruzione fuori sulla strada ad essicarsi, e magari qualche ciuffo di fiori di quelli che piacevano tanto a Pio Solero. E poi dicono da dove nasce l’arte della pittura”. Ed eccoci alla foto intitolata “Alto Cadore – Casamazzagno m. 1315” con illustrazione che dice. “Casamazzagno e le sue case disposte in fila lungo la costa, tutte disciplinate. La vita che vi scorre forse è abbastanza tranquilla, nonostante i rigori invernali segnalati dalla montagna scomoda. C’è terra da coltivare, sotto e sopra. Anch’essa disposta secondo forme-razionali”. Ci spostiamo di non molto e siamo a Dosoledo che qui – citando Zangrando – “non risplende particolarmente. Il cartolinista di turno si è limitato a darne un’idea d’insieme. E invece il paese ha quella serie di fienili che guardano verso la valle e che, come diceva Giovanni Comisso sembrano casseri di velieri che navigano nell’oceano”. Tocca a Candide, di cui viene proposta un’immagine datata del Municipio cui è accostata la dicitura: “Una volta era un centro importante. Magari lo è ancora oggi. Certo che un palazzo vi era stato costruito, pare sulle fondamenta di una residenza estiva nientepopodimenoche dei Caminesi. Qui dimostra già la sua potenza, con questo massiccio edificio in primo piano, che è già insegna”. Ci avviamo alla conclusione del “viaggio” con Padola “vista mentre si eleva verso i piani di Sant’Antonio. La strada principale è assai larga. Ma c’è una spiegazione. Questo paese è stato tra i primi dell’intera area, che ha avuto un piano regolatore come Dio comanda, elaborato da Giuseppe Segusini, uno che aveva le idee chiare”. Restiamo sul posto per “la ‘stua’ sul Pàdola è come un cidolo in formato ridotto. Serve a sbarrare il passo all’acqua e a rendere logico l’afflusso del legname. La costruzione avrebbe meritato migliore considerazione per la sua forma e la sua funzionalità”. Siamo al “confine italico di Monte Croce” con dicitura: “Siamo ancora ai tempi in cui la Pusteria apparteneva all’imperiale regio dominio austro-ungarico. Il confine passava dunque a Monte Croce di Comelico. E lì, accanto alle vecchie costruzioni per uso contadino, già c’erano quelle per i turisti e magari per i militari”. La penultima immagine che proponiamo ha la didascalia¬: “Bella soddisfazione arrivare con la ‘brownie’ o qualcosa del genere ai 2717 del Passo della Sentinella dove, probabilmente, è don Piero Zangrando che celebra la messa. Per ricordare quelli che da una parte e dall’altra sono morti ammazzati per l’interesse di altri”. E chiudiamo con “Danta del Comelico (a nord) Cadore m. 1410” di cui è scritto: “Danta che è diventata comune autonomo grazie ad un poema, chiamiamolo così, che a un potente del tempo dedicò Antonio Doriguzzi Rossin. Della rispettabile altezza dei suoi 1429 metri sembra orgogliosa. E poi, quel campanile a forma di torre, con l’orologio, non fa grado?”.