Pur avendo recuperato il numero di occupati persi in tutti questi anni, rispetto all’anno pre-crisi (2007) il nostro monte ore lavorate è crollato di 2,3 miliardi (-5 per cento), anche se ad aver patito questa caduta verticale non sono stati i lavoratori dipendenti, bensì gli autonomi. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.
Se i primi, infatti, tra il 2007 e la fine del 2018 hanno registrato una contrazione delle ore lavorate pari a 121 milioni (- 0,4 per cento), i secondi, invece, hanno perso quasi 2,2 miliardi di ore (-14,4 per cento) (vedi Graf. 1). Nei primi 9 mesi del 2019 (ultimo dato disponibile) la situazione è in via di miglioramento. Nel confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente, infatti, autonomi e dipendenti hanno incrementato di 175 milioni lo stock di ore lavorate (+0,5 per cento) (vedi Tab. 1).
“Sebbene dal 2015 il monte ore lavorate sia tornato a crescere – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – il gap con il livello pre-crisi è ancora fortissimo e a pagare il conto sono stati, in particolar modo, gli artigiani e i piccoli commercianti. In questi ultimi 10 anni, infatti, il numero complessivo di queste piccole attività di vicinato è diminuito di 200 mila unità. Chiusure che hanno desertificato molti centri storici e altrettante periferie di piccole e grandi città, con una veemenza che dal secondo dopoguerra non si era mai verificata”.
Con un’occupazione in aumento e un monte ore lavorate ancora molto inferiore al livello pre-crisi, la produttività del lavoro, tuttavia, non ha registrato alcun incremento significativo (Vedi Graf. 2).
Oltre ad aver costretto alla chiusura molte piccolissime attività, la bassa crescita del Pil registratasi in questi ultimi 12 anni ha condizionato negativamente anche la qualità dei nuovi ingressi nel mercato del lavoro. Se i lavoratori dipendenti a tempo parziale sono aumentati di oltre 1 milione di unità (+40,2 per cento rispetto al 2008), lo stock di quelli full time, invece, è sceso di 341 mila unità (-2,3 per cento rispetto al 2008) (vedi Tab. 2).
“E’ vero – afferma il segretario della CGIA Renato Mason – che gli effetti della crisi economica sono stati pesantissimi e, pertanto, è problematico redigere delle comparazioni tra il 2007 e i giorni nostri. Tuttavia, è utile dare degli elementi all’opinione pubblica affinché apprenda, numeri alla mano, le difficoltà del momento e gli ambiti dove la nostra economia presenta ancora dei ritardi che vanno assolutamente colmati, auspicando che il Governo metta in campo delle misure economiche adeguate, come una drastica riduzione delle tasse, della burocrazia e un forte incremento degli investimenti pubblici”.
La ripartizione geografica dove la flessione delle ore lavorate è stata maggiore è il Mezzogiorno. Tra il 2007 e il 2016 (ultimo anno in cui i dati regionali sono a disposizione) la contrazione è stata del 10,7 per cento (pari a -1,4 miliardi di ore lavorate), contro il -5,8 per cento del Nordest (- 563 milioni), il -5,7 per cento del Nordovest (-755 milioni) e il -5,1 per cento del Centro (-491 milioni).
A livello regionale le riduzioni più importanti si sono verificate in Molise e in Sicilia (-12,4 per cento in entrambi i casi), in Campania (-12,3 per cento) e in Basilicata (-11,1 per cento). Per contro, la Lombardia (-4,8 per cento), il Lazio (-2,9 per cento) e il Trentino Alto Adige (-1,1 per cento) sono state le regioni meno interessate da questo fenomeno (vedi Tab. 3).
Come era prevedibile, tra il 2008 e il 2018 l’escalation del numero di dipendenti a tempo parziale ha interessato soprattutto il Sud (+355.000 unità pari a una variazione del +55,4 per cento). Più contenuto il dato che ha riguardato il Centro (+226.000 pari al +41,1 per cento), il Nordovest (+275.000 pari al +35,7 per cento) e il Nordest (+187.000 pari al +30,1 per cento). Campania, Calabria e Puglia, invece, sono state le regioni con la più elevata percentuale di crescita, rispettivamente del 68,6, del 66,7 e del 62,3 per cento. Marche (+26 per cento), Umbria (+22,8 per cento) e Veneto (+12 per cento) sono stati, infine, i territori meno coinvolti dall’aumento della “precarizzazione” del mercato del lavoro (vedi Tab. 4).