Negli ultimi 20 anni la ricchezza del nostro Paese (Pil) è cresciuta mediamente dello 0,2 per cento ogni anno. Un dato molto preoccupante che è riconducibile, in particolar modo, agli effetti negativi provocati dalla grande crisi iniziata nel 2008. E nonostante sia trascorso oltre un decennio da questo evento, assieme alla Grecia siamo l’unico Paese dell’area dell’euro a non aver ancora recuperato la situazione ante-crisi (2007). Rispetto a 12 anni fa, infatti, dobbiamo “riconquistare” ancora 4,2 punti percentuali di Pil, ma anche 19,2 punti di investimenti, 5,9 punti di reddito disponibile delle famiglie e 1,4 punti percentuali di consumi delle famiglie.
Queste difficoltà, purtroppo, continuano a perdurare, nonostante la platea degli addetti sia aumentata: sempre in questa ultima dozzina di anni, infatti, gli occupati sono cresciuti dell’1,6 per cento (abbiamo superato la soglia di 23 milioni di lavoratori). E nonostante questo aspetto positivo, il monte orario e il livello medio delle retribuzioni sono diminuite, a causa di un deciso incremento della precarietà, mentre la disoccupazione è aumentata dell’81 per cento (il tasso medio annuo era al 6 e ora si aggira attorno al 10 per cento). Con meno soldi a disposizione, dobbiamo ancora recuperare 5,9 punti di reddito disponibile delle famiglie e 1,4 punti di consumi. Dall’analisi di questi indicatori, infine, l’unico segnale veramente positivo giunge dalle esportazioni: rispetto al 2007 sono salite del 17,5 per cento, interessando, principalmente, le regioni del Centronord (vedi Tab. 1).
“Va comunque sottolineato – commenta il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – che l’andamento medio della ricchezza prodotta nel nostro paese risente delle forti differenze esistenti tra Nord e Sud. Negli ultimi 20 anni, ad esempio, il settentrione è cresciuto del 7,5 per cento, il Mezzogiorno, invece, è crollato di 6 punti percentuali. Sempre in questo arco temporale, la crescita media annua registrata nel settentrione è stata dello 0,4 per cento, pari al doppio del risultato medio nazionale. Nel meridione, invece, il Pil medio annuo ha subito una contrazione dello 0,3 per cento” (vedi Tab. 2).
Le previsioni, purtroppo, non lasciano presagire nulla di buono. Come ha segnalato nei giorni scorsi anche l’Ocse, sia nel 2019 che nel 2020 la crescita del Pil italiano sarà dello zero virgola. Un trend condizionato da una situazione economica mondiale molto difficile che sta diffondendo segnali di incertezza e di sfiducia in tutta l’area dell’euro che, comunque, dal 2000 è cresciuta del 30 per cento; 7 volte in più dell’incremento registrato dall’Italia.
Bassa produttività del sistema paese, deficit infrastrutturale, troppe tasse e una burocrazia ottusa ed eccessiva sono le principali cause di questo differenziale con i nostri principali partner economici. Se, però, sempre in questo arco temporale analizziamo l’andamento dei nostri conti pubblici, il rigore non è mai venuto meno.
“Negli ultimi 18 anni – dichiara il Segretario della CGIA Renato Mason – solo in un anno, il 2009, il saldo primario, dato dalla differenza tra le entrate totali e la spesa pubblica totale al netto degli interessi sul debito pubblico, è stato negativo. In tutti gli altri anni, invece, è stato di segno positivo e, pertanto, le uscite sono state inferiori alle entrate. A ulteriore dimostrazione che dall’avvento della moneta unica, l’Italia ha mantenuto l’impegno di risanare i propri conti pubblici, nonostante gli effetti della crisi economica siano stati maggiormente negativi da noi che altrove”.
E’ altrettanto importante segnalare che tra il 2000 e il 2007 (anno pre-crisi) il trend di crescita delle regioni del Centro (Toscana, Lazio, Umbria e Marche) è stato superiore anche a quello del Nord (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna). Successivamente, sebbene sia sceso come nel resto del Paese, il primato economico del Centro è proseguito anche nel periodo più nero della crisi (2008-2014). Solo dal 2015 il Nord è tornato a imporsi, distanziando le altre ripartizioni geografiche del Paese (vedi Graf. 1).
Secondo la CGIA il tema degli investimenti rimane centrale per delineare qualsiasi politica di sviluppo economico. Senza investimenti non si creano posti di lavoro stabili e duraturi in grado di migliorare la produttività del sistema e, conseguentemente, di far crescere il livello delle retribuzioni medie e dei consumi.
Il crollo degli investimenti avvenuto in questi ultimi anni è dovuto alla crisi, ma anche ai vincoli sull’indebitamento netto che ci sono stati imposti da Bruxelles. Una serie di vincoli che, comunque, potremmo superare se, come prevede il Fiscal Compact, l’Unione europea introducesse la golden rule. Ovvero, la possibilità che gli investimenti pubblici in conto capitale vengano scorporati dal computo del deficit ai fini del rispetto del patto di stabilità fra gli stati membri.
Alla luce di questo quadro emerso dall’analisi effettuata dall’Ufficio studi, la CGIA indica almeno 5 interventi che il nuovo Governo dovrebbe attuare per rilanciare l’economia, puntando, in particolar modo, sulle esigenze delle Pmi che costituiscono il tessuto connettivo del Paese. Esse sono:
1) Forte riduzione delle tasse e semplificazione del sistema tributario
E’ necessario uno choc fiscale che riduca, in 3 anni, la pressione fiscale di almeno 5 punti percentuali. Come ? Tagliando il cuneo fiscale, eliminando l’Irap per le micro e piccole imprese, abolendo lo split payment, il reverse charge nell’edilizia e riducendo progressivamente gli acconti Irpef, Ires, Irap e Inps. Altresì, è importante ridimensionare il peso della burocrazia fiscale che sta penalizzando soprattutto le piccolissime attività.
2) Favorire l’accesso al credito
Dal 2011 ad oggi gli impieghi alle imprese sono diminuiti del 27 per cento. E’ importante promuovere un intervento concertato con gli altri Stati e presso le istituzioni europee affinché la Bce eroghi speciali finanziamenti alle banche con vincolo di destinazione a favore delle micro e piccole imprese. Inoltre, è necessario attivare strumenti di finanziamento alternativi al credito bancario. Infine, va consentito a tutte le imprese di compensare i crediti verso la Pa (certi, liquidi ed esigibili) con tutti i debiti fiscali.
3) Tornare ad investire
Rispetto al 2007 (anno pre-crisi) in Italia gli investimenti sono crollati di quasi 20 punti percentuali. Per consentire anche alle piccole imprese di crescere e creare lavoro, è necessario che lo Stato centrale torni ad investire in infrastrutture materiali ed immateriali, aggirando i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles. Come ? Applicando, dopo aver trovato un accordo con gli altri paesi dell’Ue, la regola di bilancio (“Golden rule”) secondo la quale gli investimenti pubblici possono essere scorporati dal computo del deficit ai fini del rispetto del patto di stabilità fra gli stati membri dell’Unione europea.
4) Incentivare gli interventi per il lavoro e la formazione
E’ indispensabile rilanciare gli investimenti nell’istruzione per combattere la dispersione scolastica. Altresì va incentivata la formazione professionalizzante in un’ottica di filiera che metta a regime il sistema duale (alternanza scuola/lavoro e apprendistato), aiutando economicamente gli istituti tecnici e professionali di “frontiera”. Vanno inoltre resi stabili e non limitati nel tempo gli incentivi per favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro anche come neo-imprenditori.
5) Investire nell’impresa 4.0 e nell’utilizzo del digitale
Fino ad ora gli effetti dell’iniziativa impresa 4.0 hanno interessato quasi esclusivamente le imprese di media e grande dimensione. Si deve pensare anche alle micro imprese e a quelle artigiane che intraprendono il percorso di trasformazione digitale con il medesimo interesse comunicativo, le stesse corsie preferenziali burocratiche e le medesime risorse speciali attribuite alle start-up e Pmi tecnologiche.