di RENATO BONA
Torniamo molto volentieri sul pregevole libro “Malgari e pascoli. L’Alpeggio nella provincia di Belluno” curato nel 1991 da Daniela Perco, ed edito (contributo della Regione Veneto) da Pilotto di Feltre per la Comunità montana feltrina ed il Centro per la documentazione della cultura popolare (istituito nel 1979 dalla stessa Comunità montana con l’intento di studiare e far conoscere i molteplici aspetti della cultura tradizionale della gente delle valli e delle montagne bellunesi oltre che di coordinare le iniziative locali in questo settore). Nel precedente servizio abbiamo attinto dalla prof. Ester Cason Angelini autrice del capitolo intitolato: “Note sull’alpeggio nel Bellunese e nella Val di Zoldo”. In questa occasione seguiamo Corrado Da Roit che ha firmato il capitolo “Delle liti sui pascoli e sull’alpeggio dei bovini a La Valle Agordina” e dal quale apprendiamo che “per secoli e soltanto fino a pochi anni fa, centinaia di mucche si sono divise i pascoli che fasciavano la media montagna coprendo un territorio assai vasto che si estendeva da settentrione, ai piedi della Moiazza, fino al Van dei Pezedèi, all’estremità orientale del paese di La Valle Agordina, sotto il Talvena e le Zime de Zità. Centinaia di capi per cui, a volte, risultavano insufficienti i pascoli e le strutture create per la comodita degli animali stessi e degli uomini che li custodivano, anche se, fin dai tempi remoti, le strutture per l’alpeggio erano state predisposte con attenzione e cura pari all’importanza che il bestiame rivestiva nell’economia del paese”. L’autore richiama quindi la realtà di La Valle Agordina con piccoli ‘bàit’ per il ricovero dei pastori, sparsi un po’ ovunque fin dove le greggi potevano spingersi mentre mucche e vitelli erano ospitati nelle 4 malghe “storiche” dotate di ‘casèra’ e ‘teàz’ (tettoia) i cui pascoli si estendevano lungo i fianchi e sulla testata delle valli che solcano il territorio del Comune: Val di Càleda,valle della Missiaga, valle della Bordina, Val Clusa, cui più tardi si è aggiunta la malga del Duran, sull’ampio pianoro vicino alla Val de Vie che era destinata all’alpeggio dei vitelli. Un complesso di pascoli vasti e tuttavia non sempre abbondanti ma fondamentali per la sopravvivenza del bestiame e di conseguenza “della povera gente che abitava la valle”. Da qui – scrive Da Roit – l’essenzialità del pascolo, la necessità di curarlo e, all’occorrenza, di difenderlo”. Perché la gente di paesi e valli vicini viveva la stessa condizione dei lavallesi e dunque se i pascoli risultavano insufficienti ne derivava “la necessità e il desiderio di ampliarne i confini, o se ciò non risultava possibile, di trovare altre soluzioni, come l’intrusione furtiva con gli animali nei pascoli altrui”. E a volte erano gli stessi abitanti del territorio che, col fienile vuoto, “cercavano di sfamare le bestie sui pascoli comuni, a danno della Comunità”. Nel tempo ci fu anche un conflitto tra le Regole di Agordo e La Valle per il possesso del pascolo del Duràn: “una contesa in cui gli interessi in gioco avrebbero potuto ripercuotersi pesantemente sull’economia del paese. E Corrado Da Roit ricorda che la controversia “aveva meritato l’attenzione del Magistrato ai Beni Comunali della Repubblica Veneta, al punto che un Perito era stato incaricato di redigere una cartina dei luoghi”. Il documento del perito Gasparo Montan, del 20 luglio 1772, mostra il monte e la caséra di Càleda e naturalmente “il locco contensioso, fra la val de Vie e la val de Polès, fornendo l’indicazione che tale luogo era poscesso della Regola della Val”. Merita attenzione il particolare che nell’indicazione del sito della casèra, oltre a scriverne il nome il perito si è soffermato a disegnare una casetta con l’evidente intento di porre in rilievo l’importanza della malga anche sotto il profilo strutturale. Dopo l’interessante descrizione delle singole realtà relativamente alle strutture e alle zone di pascolo, l’autore ricorda che “Il Comune, in quanto proprietario, doveva farsi carico della manutenzione straordinaria delle strutture, per le quali nel 1933 aveva provveduto a stipulare un’assicurazione contro gli incendi. Le quote possono fornire un’idea del valore dei fabbricai: L. 100.000 per la Malga di Càleda, L. 10.000 per La Foca, L. 7,000 per La Roa, 6.000 per il Moschesin e 4.000 per la Val Crusa; utile il confronto con la quota relativa alla ‘casa municipale’ che ammontava a 300.000 lire. Naturalmente le amministrazioni delle malghe erano tenute a versare al Comune una quota di affitto che, ad esempio, nel 1926 era stata di complessive L. 1800, nel 1932 ammontava a L. 15.000, nel 1934 a 12.004 lire.”. E conclude accennando al compenso percepito dagli uomini che “era proporzionale all’importanza del ruolo che ricoprivano: prendendo ad esempio La Foca, nel 1921 il ‘casèr’, il doghèr e i pàster guadagnarono 7,25 lire al giorno, il codaruól 6,50 e il fogaruól 5,75 lire; il loro lavoro con 123 animali, nelle 75 giornate di monticazione, si riassume nelle seguenti cifre: furono munti kg 17.902.800 di latte, dal quale si ricavarono 1611,400 kg di formaggio, 387,100 di ricotta e 542,900 kg di burro.
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro “Malgari e pascoli. L’alpeggio nella provincia di Belluno” con immagini di G. De Col, Giovanni Angelini, raccolta Corrado Da Roit): particolare della casèra di Càleda nella carta del perito Gasparo Montan; cartina dei pascoli di La Valle Agordina; Malga Càleda nel 1910; Casèra e ‘teaz de La Roa’ a quota 1436; Casèra ‘de le vedèle’ in Duràn nei primi anni ’60; Casèra La Foca, La Valle Agordina, nel 1933; mungitura sotto i ‘teaz’ di malga La Foca nel 1953; i malgari Toni Crose e Genio Lugai mentre preparano il formaggio nella malga La Foca, è il 1955; malgari di casèra Càleda, siamo nell’agosto del 1931.