BELLUNO Il figlio di Michele, Antonio, inventore del “Salvet”, ne seguì con successo le orme Orgogliosamente di origine pagota in quanto figlio di Eugenio “Neno” e nipote di Beniamino Bona, entrambi di Tambre, nonché nipote di nonna Antonia Bortoluzzi, di Valdenogher, proseguo con grande interesse che vorrei estendere a chi mi legge, la rivisitazione dei “Personaggi illustri dell’Alpago e Ponte nelle Alpi” (titolo del libro edito nell’agosto 1978, tipografia Piave di Belluno) per il centenario di Placido Fabris “il pittore solitario”, dal maestro Mario De Nale per conto del Centro sociale di educazione permanente di Tambre e dell’Associazione emigranti bellunesi. La quarta tappa di questo “viaggio” è dedicata a Michele Fagherazzi detto “Cecon”, definito il “plasmatore del ferro”. De Nale nel suo ricordo precisa che Michele era figlio primogenito di Antonio e di Giovanna, anch’ella Fagherazzi, ed era nato il 3 agosto 1871 ad Irrighe di Chies d’Alpago. Il padre del nostro personaggio, da giovane aveva fatto il gendarme a Venezia (ultima impresa in divisa scovare due ladri che si erano nascosti nel campanile della chiesa dei Frari) e dopo il congedo si era sposato e sistemato nella borgata San Gregorio “ottenendo una occupazione presso il seminario patriarcale con i cugini Lorenzo, Zammaria, Daniele e Giacomo, per un compenso di 75 centesimi al giorno, troppo poco per campare e portare innanzi la famiglia che, col passare degli anni, si era abbellita di cinque graziosi rampolli: Michele, Osvaldo, Giacomo, Teresa e Catina; ma la moglie contribuiva ad arrotondare lo stipendio come portatrice d’acqua”. Ancora De Nale: “Quando il padre vide nella culla Michele, un bel marmocchietto paffuto e dalle guance color di mela, che da sotto l’orlo della cuffia mostrava due occhioni vispi e furbi, non aveva avuto esitazione a sentenziare: ‘sarà un gendarme come suo padre’”. Invece… a 12 anni, dopo le elementari, Michele fece l’apprendista nella vecchia e celebre officina veneziana “dei Orsi”, in Calle dei Fabbri, assieme al fratello Osvaldo. Qualche anno dopo vinse un concorso per maestranze all’arsenale di Taranto e contrariamente a quanto pronosticato dal padre si trasferì nella città ionica dove “per le sue doti di lavoratore serio e pieno di buona volontà, ottenne un posto di responsabilità”. Vano l’appello del genitore: “Quando ti giungerà l’accettazione della domanda di arruolamento nella gendarmeria, ti raccomando di guadagnar tempo: sono tanto tanto ansioso di vederti indossare la divisa della tradizione familiare per troneggiare nei campielli e nelle calli con la lunga sciabola al fianco e lo sfolgorante pennacchio sul cappello…”. Le cose andarono diversamente: Michele sposò Amelia, figlia unica del suo amico Ottavio Lazzarato di Roncade, dalla quale ebbe tre figli: Antonio, Giuseppe e Ottavio. Poi, “maturate tutte le tecniche della lavorazione del ferro, ritornò a Venezia dove, anche in forza delle referenze fornite dall’arsenale tarantino, fu riassunto nuovamente dalla bottega ‘dei Orsi’, questa volta come fabbro specializzato. E col nuovo lavoro molto impegnativo cominciarono finalmente ad affiorare le grandi doti che dovevano, col tempo, formare il grande maestro del ferro battuto”. Quindi: “realizzato un discreto risparmio, lasciò la vecchia bottega per aprirne una di nuova, tutta sua, in campiello dei Meloni”. Col successo, la necessità di spazi più ampi e nuovi trasferimenti per approdare infine al 3944 di Dorsoduro dove lavorò coadiuvato dai figli, in particolare Antonio. Il suo capolavoro è dato dalle tre porte in ferro battuto della chiesa collegiata prepositurale dell’Immacolata Concezione, il Duomo di Montebelluna, uniche al mondo, con quella centrale decorata di angeli e cherubini, con il Vangelo, nelle due laterali pure composte da 8 pannelli, con il Vecchio e il Nuovo Testamento. Degna di rilievo anche la “Porta s. Antonio” (medaglia d’argento nel 1932 alla Mostra d’arte sacra di Padova) decorata di gigli e chiodi, comprata per 100.000 lire dal ricco commerciante palermitano Amoruso per adattarla all’ingresso di un santuario costruito sulla spiaggia siciliana e dedicato al Santo di Padova, per implorarne la benedizione per i marinai in pericolo. Altri lavori rilevanti: un “San Giorgio” in rame sulla nave “Giorgio Cini”; il cappello d’alpino sul monumento montano di Quero; la Madonna e il Cristo con tutta la Via Crucis nella chiesa di Irrighe, le cinque croci del nuovo campanile di Frassenè Agordinio, le decorazioni della Camera dei Deputati a Roma; la copertura del Tempio votivo del Lido di Venezia; un busto del generale-eroe Josef Tordo, a Nizza, che gli valse le congratulazioni del sindaco; quello di Mussolini che gli procurò le congratulazioni di Vittorio Emanuele III e dello stesso soddisfatto Duce che mandò a prelevare Giacomo con l’auto di Stato per portarlo a Predappio per fare il busto a tutti i familiari. Fra i molti riconoscimenti ricevuti, il più prestigioso fu la “Coppa Barovier”: un esemplare di quella che nel 1630 fu donata dai maestri del vetro Barovier al Doge perché fosse riprodotta e assegnata ogni due anni a un cittadino che si faceva onore nel campo dell’arte, e consegnata nel 1964 al valente artista alpagoto dal conte Adriano Foscari. Chiudiamo ricordando sinteticamente anche il figlio di Michele, Antonio (nato a Taranto il 4 maggio 1896, che si formò nella bottega paterna e continuò anche dopo la morte di Michele a “plasmare il ferro ad arte pura, realizzando opere stupende che seppero stupire i critici d’arte più severi, e alle quali ebbero ad interessarsi giornali e riviste anche stranieri”. Nel 1974 ricevette il “Premio dell’operosità nell’arte” dalla Legione d’oro del Comitato italiano all’Onu; fu nominato accademico dell’Accademia per le belle arti, lettere, scienze e cultura e membro honoris causa dell’Accademia Tommaso Campanella. Seppe distinguersi anche come inventore e a lui si deve la realizzazione del “salvet” un chiavistello adatto a chiusure di sicurezza, per il quale gli fu assegnato un diploma con medaglia d’argento dall’Istituto veneto per il lavoro di Venezia e che fu esposto alla Mostra delle invenzioni della 33.a Fiera internazionale di Padova nel 1955.
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro di Mario De Nale e Wikipedia): Michele Fagherazzi; suo figlio Antonio; padre e figlio davanti ad una delle porte della chiesa di Montebelluna da loro realizzate; porta del “Vecchio e nuovo testamento” alla sinistra di quella del Vangelo; quella alla destra; busti vari dei due artisti; “Celata a becco di passero” a Palazzo Ducale di Venezia; “Volto di Cristo”; “Crocifisso”; “Autoritratto” di Antonio.