Il libro di Giuseppe De Vecchi edito nel decennale della catastrofe del Vajont del 9 ottobre 1963
LONGARONE Se, come è vero, i semiologi definiscono l’icona anche come “messaggio affidato all’immagine” allora mi pare calzante questa parola con la serie di “immagini” che lo scomparso (nel settembre del 2009) maestro longaronese Giuseppe De Vecchi – già sindaco e insignito del “Premio Longarone” il 9 ottobre 2000 a ricordo del sincero attaccamento al paese e l’intelligente e generoso impegno per la comunità, oltre che per la produzione letteraria – ci ha proposto nel settembre 1973 con il libro “Gente viva. Ricordi di un paese scomparso”, Tarantola editore Belluno, stampa tipografia Piave; in copertina: l’immagine dell’”Antica casetta del sacrestano”. Mi sembra proprio in sintonia con me l’ex sindaco di Longarone, prof. Gioacchino Bratti il quale, il 9 ottobre 1973, nel decennale della sciagura del Vajont presentando il lavoro di De Vecchi lo ringraziava così: “E’ l’omaggio migliore che potevi fare ai tuoi, ai nostri scomparsi nel Vajont a dieci anni dalla catastrofe”. Un racconto, quello di De Vecchi – sempre per dirla con Bratti – proposto semplicemente, familiarmente in pagine vive e spontanee scritte col cuore: luoghi, bozzetti, figure della Longarone che non c’è più. Una Longarone piena di vita, del colore, del sapore delle cose semplici e belle, e soprattutto fatta di persone, ognuna di esse ricca e particolare di una sua umanità. Anche se “le immagini, pur vivaci e briose, appaiono sempre velate da un senso di turbamento e di mestizia: è il ricordo di un mondo scomparso improvvisamente e brutalmente”. Pagine dunque “che si leggono con commozione e che fanno bene, destinate non solo ai superstiti del luogo o a quanti conoscevano e amavano il paese e la sua gente, ma a tutti: a tutti quelli che amano sentir raccontare dei valori umili e buoni della vita”. “Un anno fa come stasera” è il primo dei ventisette capitoli del libro (gli altri: “Longarone, paese di morti”, “L’uomo che non sa”, “Una chiesa – Una fabbrica”, “Dai, Bepi, facciamo un giretto per Longarone”, “Ricordo del dottor Trevisan”, “Mamma Catina”, “I figli del sindaco”, “Sale e lievito”, “Crisantemi”, “Ho misericordia di questo popolo”, “Il cappellano”, “Il sagrestano”, “Le maestre dell’asilo infantile”, “Ca’ Savio, frazione di Longarone presso Venezia”, “Nei secoli fedeli, fedeli sino alla morte”, “I Vigili del fuoco. Piccolo posto – grande cuore”, “La Banda musicale”, “Cantori di chiesa”, “Le campane de Longaron”, “Me comare Rosina”, “Le due sorelle”, “La Rinascente”, “Un angolo del paese”, “Il natio paese”, “Memo e Paolino”, “Il battaglio”) ed è decisamente toccante la narrazione di De Vecchi il quale, elencata una serie di persone e di situazioni nelle ore della vigilia della tragedia, scrive: “… Arriva il sindaco e salta la cena per vedere la partita di calcio (Milan-Real Madrid – ndr.) , sono le 10,22… Così come ogni sera, il paese tranquillo, con poca gente sveglia, e tanti vecchi, donne e bambini a letto. Il vento ricomincia a soffiare e scende dal nord. Il paese dà l’ultimo respiro e non lo sa… D’improvviso una montagna di rocce e terra, che da tempo scendeva a valle lentamente, scivola con velocità accelerata nel lago a ridosso della diga. L’acqua immota e scura, spinta da una forza inimmaginabile contro la grossa tegola dello sbarramento, si innalza verticale verso il cielo. Al sinistro bagliore dell’alta tensione, scoccata dai cavi spezzati, diviene biancastra e lucente, piomba subito al di là della diga per una larghezza di oltre cento metri nella forra profonda a imbuto, comprime in modo spaventoso l’aria come in una orrenda gigantesca siringa e la schizza verso Longarone. L’abitato è scrollato e sbriciolato in un attimo dallo strapotente proiettile d’aria compressa che si schianta contro il fianco del monte Zucco. Un gemito immenso di spavento e di dolore sala dal paese in una grande nube di polvere turbinante. L’acqua stretta nella valle, sotto il peso della rimanente massa che cade dal cielo rintronante, prende velocità e trova il vuoto davanti a sé e, al termine dell’angusto baratro, si apre come una gigantesca mano, raspa la roccia fino all’osso, stringe il cumulo di macerie e di corpi, stritola tutto, li trascina d’impeto nelle valli del Piave e del Maè, quindi si riapre nel vasto greto e gorgoglia verso il mare. Per alcuni istanti la grande acqua, violentemente divisa in correnti e ondate cozzanti, rimane alta nelle valli, a forma di croce. Pochi minuti, forse solo tre, centottanta colpi di immenso massacro. Ritorna il silenzio. Dalla nube che lentamente dirada appare la sottilissima falce della luna, allora sorgente, sospesa sul deserto di morte: Longarone non esiste più…”. NELLE
FOTO (De Vecchi,Google e riproduzioni dal libro “Gente Viva”): la copertina del libro di Giuseppe De Vecchi; l’autore del volume edito da Tarantola; “Pirago sotto la neve” quadro di Theodoro De Bona con “… il povero debolissimo campanile della chiesetta di Pirago”; “… e nel 1950 il cartonificio cominciò a vivere…”; nell’immagine del 1912: la famiglia De Bona; “… il bianco, altissimo campanile…: il vecchio corpo dei Pompieri del lontano 1911; i componenti di un coro che nel 1912 si fece ritrarre e che ora è un documento…; benedizione delle nuove campane che sostituirono quelle fuse nel 1912 dagli invasori; immagine del 1923; antico volume di cartapecora conservato nella canonica di Longarone, andato distrutto nel 1952.