Da pochi decenni a questa parte negli ultimi giorni di ottobre siamo assaliti dal tormentone di Halloween, un rituale divenuto del tutto pagano e alimentato dalla società dei consumi che ne esaspera la diffusione. Rischiando di essere accusato di esterofobia, mi piacerebbe invece che si ritornasse alle origini che sono storicamente di casa nostra. Infatti, come ricorda il compianto Gianluigi Secco, «Halloween è una delle tante tradizioni europee partite per l’America del Nord assieme agli emigranti che la colonizzarono, ritornata con altro nome e acquisita come nuovo moda, laddove, per nostra negligenza, sia risultata affievolita o scordata nel patrimonio locale». Ecco il nòcciolo della questione: l’antica tradizione legata al culto dei morti della notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre. Lo stesso termine americano apparve già nel XVI secolo nelle isole britanniche ed è una variante scozzese di All-Hallows-Even, ovvero “Vigilia di Tutti i Santi” quando nella montagna e nella campagna veneta erano già in auge riti popolari consolidati. Per la cosiddetta “Cena dei Morti” si preparavano pietanze un tempo gradite dai defunti che in quella notte sarebbero ritornati nelle case dove erano attesi lasciando acceso un lume. Che cosa si preparava? Dolcetti, scherzetti, zucche finte piene di cioccolatini? Niente di tutto questo. Nemmeno ci si travestiva quasi da zombie per esorcizzare il ritorno dei morti dall’oltretomba con costumi dei quali sono pieni oggi i negozi. Tutto aveva, invece, una modalità molto più semplice e popolare. Si preparavano il pane (pan de i mòrt), la polentina (macarón), la tòiba (minestra di fave secche), i dolcetti a forma di fava (favéte de i mòrt) che era impastata con il grano saraceno (formentón). Accanto troneggiava la zuca barùca e sul tavolo ardeva il lume «spesso realizzato con uno stoppino imbevuto nel grasso sciolto in un guscio di chiocciola», come ricorda sempre Secco. Eventuali avanzi della cena del 31 ottobre il giorno dopo erano distribuiti ai poveri. Come si può notare non c’è alcunché di nuovo sotto il sole. Tra le nostre antiche tradizioni popolari e la moderna Halloween parecchi sono gli elementi comuni, sia per la nostra montagna che per tante regioni europee dove esistono altrettante varianti locali, ma sempre legate alla civiltà contadina ancor oggi viva. È evidente che tutto ciò sia stato trasformato da fenomeno rurale in rituale metropolitano, così acquisito, trasformato, manipolato e offerto al pubblico dalle industrie dei giocattoli, della moda e dei dolciumi. Poi, in questi frenetici decenni a cavallo dei due millenni una progressiva accelerazione è stata data dalla pubblicità, sia sui giornali e più ancora nelle televisioni e oggi sui social. In tal modo il rito americaneggiante – Halloween non è il solo, ahimé! – ha preso piede nella ricorrenza annuale. Se lo si ignora nei vari contesti collettivi – famiglia, scuola, comunità e via dicendo -, si rischia l’emarginazione sociale. Non solo, l’accusa di passatista e oscurantista si accompagna allora a quanto detto all’inizio, ovvero “sei malato di esterofobia!”. Aveva ragione Secco, subiamo la conseguenza di una nostra negligenza. Ma se tutti sono liberi di festeggiare a loro modo Halloween, però, non ci si meravigli se qualcuno fingerà di non farsi trovare in casa per sottrarsi al rituale del “dolcetto o scherzetto”. Di questi tempi non si sa mai…
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