di RENATO BONA
Dobbiamo a due cari colleghi ed amici: Ivano Pocchiesa Cno, purtroppo scomparso, e Mario Fornaro, la “scoperta” di un mondo particolare: quello dei costruttori di teleferiche, cui è dedicato uno, il terzo, dei sedici capitoli del libro “Igne Paese del fuoco”, iniziativa del Gruppo Volontari Igne e della Parrocchia di San Valentino che, con il patrocinio del Comune di Longarone, ed il coordinamento generale di Media Diffusion sas, i due pubblicisti e scrittori hanno dato alle stampe nel maggio 2002 con la bellunese Tipografia Piave. Innanzi tutto vediamo perché “Igne paese del fuoco”. Pocchiesa-Fornaro scrivono che: “… è ovvio affermare che le montagne intorno al paese costituissero un punto di osservazione particolarmente felice, al fine di tenere sotto il controllo militare tutta la valle. Per cui si ritiene che i romani vi si siano accampati, accendendo i fuochi per le loro necessità. Gli storici concordano generalmente su tale supposizione e proprio a questa particolarità ‘il luogo dei fuochi’ fanno risalire il nome. Quegli accampamenti segnalavano la loro presenza con i fuochi e Ignis starebbe a significarlo”. Aggiungono che una diversa ipotesi avanzata di recente, fa riferimento ad un proprietario della zona, Ignio, o Igino. Da quel none deriverebbe Igne a detta del ricercatore prof. don Sergio Sacco, al vertice dell’Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali. In precedenza i due autori non avevano trascurato di dire che “Igne sembra essere, al di la di ogni ragionevole dubbio, un derivato dal latino Ignis, che significa fuoco” e citavano lo storico Giovanni Fiorin il quale sosteneva a proposito di Igne: “Sembra che il suo nome derivi da San Sebastiano dei fuochi; una umile chiesetta accoccolata fra le abitazioni dedicata al Santo, poi ridotta a casa, ora in possesso della vedova di De Cesero Gioacchino” (in base ad uno scritto che risale al 1956 – ndr.). Ed eccoci ai costruttori di teleferiche (struttura indispensabile per trasferire il legname dai monti a valle: senza teleferica l’impegno sarebbe più faticoso e pericoloso oltre a richiedere tempi assai lunghi) “noti per la loro abilità, per l’inventiva e per lo spirito di iniziativa che li ha sempre contraddistinti da quando si sono dedicati a tale lavoro”. Viene ricordato che si associavano in gruppi da 15-20 lavoratori e “con tali società di fatto assumevamo in appalto il disboscamento di lotti di varia consistenza. Alberi di alto fusto erano in genere pini, larici ed abeti, tipici delle montagne bellunesi. Stabilito il miglior tracciato per installare le stazioni di partenza ed arrivo della teleferica, trasportavano a spalla le funi ed il materiale necessario alla costruzione della struttura quindi davano il via al disboscamento, pulendo mano a mano gli alberi abbattuti e selezionandoli a seconda delle misure richieste, generalmente 4 metri, quindi accatastavano il legname nei punti più favorevoli nei pressi della teleferica e trasbordavano i tronchi a valle dove, dopo essere stati trasformati in taglie, pronte per essere cedute all’acquirente di turno venivano ‘fluitate’ sul Piave dai ‘menadas’ fino a destinazione: le segherie lungo il “Fiume sacro alla Patria” e la laguna di Venezia. Pocchiesa e Fornaro precisavano quindi che a partire dal 1893 “anno certificato di uno dei primi impianti e fino agli anni Sessanta-Settanta circa del secolo XIX, le teleferiche costruite da operai di Igne, di Soffranco e di località limitrofe si contavano a centinaia tanto è vero che i teleferisti, di riconosciuta professionalità, hanno lavorato anche all’estero, richiesti ed apprezzati”. Ma… nel 1955 l’Inps di Belluno interpretando restrittivamente una legge del 1923, richiese la restituzione di somme fino ad allora percepite per assegni familiari da parte di soci-lavoratori delle Compagnie boschive teleferisti che avevano forma giuridica di società di fatto. Già in difficoltà per scarsità di soci-operai, le Compagnie cessarono l’attività e negli anni 70 si contava una sola sopravvissuta: “una squadra di otto irriducibili” mentre le giovani generazioni cercavano sbocchi nell’edilizia e nel mestiere di gelatiere in Italia e all’estero. Concludevano scrivendo: “Una attività dura, fiorente, rischiosa ma anche indipendente e socializzante, divenuta una tradizione per interi paesi come Igne, Soffranco ed altri della cerchia longaronese e bellunese, dopo una settantina d’anni di ‘gloria’ alzava bandiera bianca per essere annoverata un po’ malinconicamente, tra i mestieri che furono”. Infine nel libro vengono richiamate “alcune tra le principali realizzazioni” in fatto di teleferiche: la prima, del 1893, che partiva da Dàleghe ed arrivava all’inizio della salita del Tou, lunga 700 metri; la seconda, del 1897, con partenza da Pra de Rizapol località Taò e arrivo a Perera dopo 5-600 metri lineari; altri impianti: Cajada-Desedàn e poi fino alla ‘Piena’ presso Fortogna, 1700-1800 metri; Rui della Lasta “Vedelei” con arrivo ai Casoni dopo Mezzocanale; monte Sila-Policastro (Calabria) in tre tratte e lunga complessivamente 14 chilometri; partenza da Zàgheri (Russia, Azerbagian-Baku, Mar Caspio di 1400 metri; da Venier ai Casoni; ancora: Listolade, Agordo-Taibon, di 9 mila metri in due tronchi; dalla località Rochemolles (Torino) di 2500 metri; per il trasporto di tutti i materiali necessari alla costruzione della diga; partenza da Pissandola del Caoran ed arrivo ai Casoni con attraversamento del Maè, lunga 2700-2800 metri; dall’albergo del Tono in Val del Grisòl ed arrivo a Stuàt prima tratta di 1300 metri, seconda, fino a Soffranco, di 5.000, nota come teleferica maestra; da Val Sorda a Caoria, Trento, lunga 5.500 metri; da Col Mazùc a Buscole di Farra d’Alpago nella foresta del Cansiglio, 1300 metri; da Malga Pralongo a Forno di Zoldo di 1400 metri; da Pian Grande alle segherie Costantini sempre a Forno, di 2500 metri; dalla statale di Alemagna alle finestre della galleria in fase di costruzioni per la condotta d’acqua dalla diga di Sottocastello a quella di Soverzene; da Code della Busa de Palughet a Desedan, su due tratte di 1500 e 1700 metri; da Masarè di Alleghe ed arrivo al rifugio Tissi al Civetta, lunga 2000 metri; da Col di Roanza a Belluno ed arrivo a 200 metri dal monte Serva, di 2 mila metri. Chiudiamo con un capitolo più breve del libro, intitolato “I boscaioli e la risina” dove si rammenta che “il primo attore della complessa operazione che ruotava attorno ad una conifera ‘matura’ per essere abbattuta e sostituita con virgulti più giovani era il boscaiolo… Quando ancora non era stata introdotta nei lavori del bosco la teleferica, di cui la gente di Igne divenne maestra famosa, i boscaioli radunavano le ‘taglie’ in uno spiazzo chiamato ‘tasson’ e le calavano a valle superando dislivelli di centinaia di metri, con il sistema della ‘risina’ cioè le indirizzavano in un percorso ripido, un dirupo, attrezzato con degli alberi, manovrandole con ‘l’arghen a corde’ per non perderne il controllo e non spezzarle. Quando possibile le indirizzavano in un laghetto artificiale, una piccola diga, la ‘stua’. L’introduzione della teleferica soppiantò la ‘risina’”.
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro Igne. Paese del fuoco”): la copertina del volume; gli autori: Ivano Pocchiesa e Mario Fornaro; anni ’40: impianto di teleferica “regolare” con Vincenzo Damian “Branconi” e Giobatta Bez “Bezet”; Campo Tures, Bolzano: teleferisti di Igne al lavoro; anni ’50: Enrico De Cesero “Togni” verifica l’opera ultimata; teleferisti e boscaioli di Igne al lavoro; trasporto di un “bòtol” ovvero un tronco sui due metri di lunghezza sulla teleferica, in primo piano Luigi De Cesero “Strauz” approfitta per un “passaggio” verso le alte quote…; il lavoro non manca per i boscaioli di Igne; Ettore De Cesero “Cina” in quel di Pergine in Valsugana nel 1947.