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AUTUNNI LONTANI
AUDIO
Le sei e mezza di sera,
i vetri che gocciolano umidi di condensa.
Sussurri in cucina, l’Amico del Popolo fra le mani, gli occhiali sulla punta del naso.
Il dito che scorre fra le righe, le labbra raggrinzite che si muovono senza dire nulla.
I fogli spiegazzati di un vecchio Stop, il riso col latte che bolle nella pentola celeste, odore di medicine e all’esterno il chiarore della pila arancione del nonno che è uscito a prendere l’ultima cesta di legna.
La lampadina da 30 watt, quella appesa al muro sopra il gas, con la catena da tirare, il coltello nel cassetto del tavolo, la nonna seduta accanto alla finestra.
Una mescolata al riso, l’Intervallo Rai che mostra in bianco e nero località sconosciute, l’orologio a pendolo che batte le sette.
Scoppiettare del fuoco, frugare nella credenza, rumore di piatti e bicchieri posati sulla tovaglia di plastica.
Aldilà dei vetri un po’ di vento che muove i rami del vecchio ciliegio, un chiarore di stelle sopra il Pelsa e un bambino raggomitolato che dorme sopra il fornel.
L’autunno di un tempo, di quando c’eravamo ancora tutti e al nascere del giorno c’era la brina sui prati.
C’era un caldo pesante in quelle tre stanze al piano terra scarne di dialoghi e ricolme di affetti. Un calore forte di legna di larice, di faggio e abete, che riscaldava cuori semplici e muri accarezzati dal vento freddo di quasi novembre. C’era l’autunno che colorava i boschi e la pacatezza di quei gesti affaticati e quotidiani che scandivano lunghe giornate all’apparenza sempre uguali. C’era quell’aroma serale di minestre fumanti e la lentezza del vivere quel tempo di fine ottobre che acquietava uomini e montagne. A Belluno era stato l’ingiallire dei tigli e del grande ippocastano di Via Feltre ad annunciare la venuta di un altro autunno. Lassù al paese, invece, era stato l’indorarsi dei larici aggrappati alle cenge del Pelsa ad avvisare gli uomini della valle che era arrivato il tempo di mettere mano alle cataste di legna. Io li ricordo quei giorni lontani di brina che di notte imbiancava i prati, le rammento quelle serate di poche parole pronunciate a bassa voce in dialetto stretto. Parole pesate, essenziali, che arrivavano sfumate a quelle orecchie bambine che catturavano ogni più piccolo suono proveniente da quel mondo silenzioso di lassù. All’ora di cena il crepitare del fuoco e il soffio malinconico e monotono del gas, la luce giallina e soffusa, l’acqua fredda dal rubinetto del lavandino e quella bollente nella vasca della Focus. Il soffiare sui cucchiai roventi, i respiri e i gesti lenti, quei Dai magna, fa ‘l valent. Il brodo spesso, le stelline, una grossa fetta di formaggio e un pezzo di pane strappato da quelle pagnotte quadrate, ruvide e squisite. Sere lente, cariche di un vivere antico e brevi nostalgie, di profumi di legna e cibi semplici. Sere di lontani autunni andati vissuti lassù, dove all’imbrunire fumano i camini e la luna inizia il suo notturno vagare fra le cime.
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