L’ATRIOL DE LA CROS
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Una vecchia galleria. Il fascino e la malinconia di una strada dismessa da oltre vent’anni. L’antico tunnel “delle Anime”; ex Strada Statale 346 del Passo San Pellegrino. Porta d’ingresso di una valle dove la montagna diventa montagna vera. Dove il gelo d’inverno sa picchiare duro. E la neve è sempre tanta. Valle del Biois. Boschi di abeti ed un torrente spesso nervoso. Una galleria stretta, in pendenza. Con i ghiaccioli che d’inverno creavano dei giochi di luce straordinari, illuminati dalle lampade arancioni a mercurio. Poi uscivi e trovavi località dai nomi un pò inquietanti: “Crepa granda”, le “Valscure”, il tutto sovrastato dall’incombente monte delle Anime. Tutto in poco meno di un km. Chissà quanti mezzi sono passati sotto la sua volta annerita. Auto di turisti e di emigranti che andavano a lavorare a Bolzano. E poi biciclette e corriere, camion e betoniere. Ed anche un futuro Papa nato a Forno di Canale. Galleria severa, percorsa quotidianamente da gente di montagna abituata a queste strade ricche di fascino e pure di insidie. Incuteva un solenne timore la vecchia galleria delle “Anime” in quel pomeriggio d’inizio inverno di tre anni fa. Il tratto dismesso della ex Strada Statale che da Cencenighe sale verso Vallada era chiuso nella morsa del gelo. All’interno del tunnel nessuna luce. Spente per sempre le vecchie lampade arancioni a mercurio, e pure i neon installati qualche anno fa. Un silenzio di pietra regnava nel ventre della grande frana delle Anime. Nemmeno una goccia d’acqua scendeva lungo la volta; nessun gocciolare ipnotico a scandire un tempo senza tempo. Grossi pezzi di ghiaccio ingombravano la carreggiata. In alto scintillanti ghiaccioli, meravigliosi ed inquietanti pendevano dalla volta scura. Non l’ho percorsa quel giorno come facevo spesso d’estate; mi sono spinto fino al termine del tratto artificiale e poi mi sono fermato. C’era un buio assoluto, l’asfalto era completamente ghiacciato e le stalattiti di ghiaccio parevano terribili armi medievali pronte a colpire. Così sono ritornato sui miei passi ed ho imboccato il sentiero esterno che allora non era ancora strada sterrata. Il cielo era pesante e sembrava chiamare neve; e l’atmosfera che si respirava era da “day after”. Era trascorso poco più di un mese dalla tempesta Vaia e le ferite inferte al territorio erano ancora sanguinanti. Il Biois scorreva fra le pietre ricoperte di “brosa” e l’alveo era ingombro di grandi massi e qualche pianta schiantata. Le sponde in parte erose e le briglie ammaccate a completare quel quadro alquanto desolante. Qualche minuto più tardi ho raggiunto l’imbocco nord della vecchia galleria e, proseguendo per qualche decina di metri, mi sono ritrovato nei pressi della Crepa Granda. Metteva soggezione il tetro e strapiombante sperone di roccia fratturata che sembra sfidare le leggi della fisica: la sua roccia umida, che a toccarla si riduce in scaglie, è ricoperta da numerosi strati di rete metallica di fogge diverse; e poi numerosi tiranti ed un paio di muri di sostegno tentano di stabilizzare quell’equilibrio precario che induce il passante ad accelerare il passo. Sotto al grande sperone, incastonata nella roccia e sovrastata dalle reti paramassi, quella lapide illeggibile causa maldestro spruzzo di cemento; enigmatica per chi non sa, triste memoria per chi conosce quella storia che, purtroppo, talvolta in montagna si rinnova anche ai giorni nostri. Storie di nevicate imponenti e “levine” potenti che a volte non lasciavano scampo ai quei malcapitati viandanti che a piedi percorrevano questi percorsi severi. L’asfalto nuovo precocemente invecchiato, i mucchi di rami “ingrumai ‘nte le cunete” ed il tubo volante dell’acquedotto posato sul manto stradale erano ulteriore testimonianza di ciò che era avvenuto poco più di un mese prima. Pure il panorama era cambiato, ed ora si scorgevano distintamente le case del Mas di Vallada: gli alti abeti che le celavano alla vista ora non c’erano più, abbattuti da “quel” vento. Osservavo i vecchi guard-rail, le consunte ringhiere verdoline anni ’70 e quei segnali di “pericolo caduta sassi” che invece sono sempre attuali da queste parti. Il tempo sembrava essersi fermato a quando le corriere erano dipinte di blu e il suono delle loro trombe bitonali risuonava ad ogni curva e rimbombava in galleria. La méta del mio cammino distava ormai poche centinaia di metri e mentre avanzavo lungo la strada in leggera salita mi chiedevo: “saralo ‘ncora l’Atriol de la Cros? O elo dut a fenì fora par l’acqua…”. Qualche giorno dopo la tempesta l’avevo cercato con lo sguardo “dai or de l’Anime”; ma da lassù non ero riuscito a scorgerlo. Avevo visto invece il letto del Biois che, nei pressi del Mas di Vallada, si era prepotentemente allargato e le ghiaie parevano quelle di un quasi fiume. Quel giorno, mentre osservavo dall’alto i bulldozer che spostavano quel mare di ghiaia, pensavo che poco più a valle l’alveo si restringe improvvisamente proprio nel punto in cui sorge l’Atriol. Pensavo alla enorme massa d’acqua che scendeva lungo la Val del Biois in quei due giorni d’inferno: e francamente ero convinto di non ritrovare l’antico capitello datato 1361. Pochi minuti più tardi ho imboccato la stradina sterrata che scende verso il ponte che attraversa il Biois e mentre camminavo mi sono venute in mente le parole di papà pronunciate poco tempo prima. Si parlava dei danni provocati dalla “brentana” e in quel frangente mi venne in mente il caro vecchio Atriol; “che fin avaralo fat l’Atriol con chel casin de acqua che le vegnù fora? chiesi. La risposta fu piuttosto netta; ” onde vosto che ‘l sie dut, lè ‘lè ‘ncora la inte pò!! ‘No ‘l sa movest gnanca del ’66 ‘, fegurase se no lè ‘ncora là!!.” Camminavo e ricordavo questo dialogo, poi finalmente ho scorto la Croce in ferro che svetta in cima al grande masso e, appena dietro, il capitello perfettamente intatto. In quell’occasione mi sono fermato all’entrata del ponte che era chiuso al transito e non ho potuto sfiorare la pietra sommitale dell’arco. Quella pietra resa liscia da chissà quante mani di viandanti che si fermavano per una preghiera affinché il loro cammino fosse protetto dai pericoli. Guardavo l’Atriol immacolato, nemmeno sfiorato dalle furiose acque del Biois, e pensavo alla sapienza degli antenati che lo costruirono in quel particolare punto. Da oltre seicentocinquantanni è in continua sfida con le acque talvolta iraconde del Biois; e vince sempre lui. Era pesante il cielo ed il freddo cominciava a mordere quando mi sono incamminato dapprima sulla strada sterrata e poi sulla vecchia statale. E mentre superavo di buon passo lo sperone di Crepa Granda mi sono detto ad alta voce: Atriol batte Vaia uno a zero, te ha vinzest ‘naltra ota tì…Magiche Dolomiti!!
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