L’ULTIMO VIAGGIO
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La piazza di Cencenighe era deserta e ingombra di neve. Un’atmosfera grigia e umida copriva il paese in quel pomeriggio d’inizio febbraio. Aveva smesso di nevicare da poche ore, ed era stata l’ennesima nevicata dell’inverno fra i più nevosi degli ultimi trent’anni. Si spalava nel gran silenzio di quel giorno uggioso accompagnati dal sommesso canto del Biois che scorreva fra le pietre ghiacciate. Fu verso le quindici che suonarono le campane. I rintocchi di La e SOL della Civica e della Patronale risuonavano fra le case per poi perdersi nelle nuvole che coprivano il Pelsa. Era il suonare dei funerali. Ci guardammo senza capire e poi seguitammo a spalare quella neve pesante. Mentre i rintocchi sfumavano arrivò il carro funebre. Con la pala sgombrammo altra neve per permettegli un parcheggio piu agevole sotto il sagrato della chiesa. Il giovane che era alla guida salì lungo la rampa innevata ed entrò in chiesa mentre noi continuavamo il nostro lavoro. Era strano pensai: quando eravamo arrivati non c’erano persone nei pressi della chiesa com’era d’uso in occasione dei funerali. C’erano soltanto silenzio e neve. Qualche minuto più tardi alzai lo sguardo e vidi il giovane delle pompe funebri che ci osservava da dietro la ringhiera di legno del sagrato. Ci chiese gentilmente se potevamo aiutarlo e ci parve una richiesta piuttosto strana. Pochi istanti più tardi fummo da lui. La porta della chiesa era aperta e la bara stava sul carrello appena oltre la soglia. Il prete uscì, ci osservò senza dire nulla, chiuse la porta con due giri di chiave e se ne andò. Capimmo che il funerale era terminato. Esequie che il parroco celebrò da solo in una chiesa deserta. “…datemi una mano per cortesia, qui non c’è nessuno oggi…”. Tre uomini e una bara di legno chiaro. Neve e mormorare del Biois. Guardai negli occhi il giovane vestito di nero e prima che proferissi parola mi disse “…era in lungodegenza da anni ad Agordo. Non aveva più nessuno e…” Lo fermai, non volli sapere altri dettagli di quella storia triste. Impugnammo le due maniglie anteriori della cassa ed uno la sollevò da dietro e ci inoltrammo lungo l’esile traccia scavata nella neve. Procedevamo con qualche difficoltà nonostante la bara fosse leggera. Pensai a quell’anziana che stavo accompagnando nell’ultimo viaggio. Ai tanti anni che aveva vissuto in solitudine prima di lasciare questa terra in un giorno di neve agordina. Pensai al suo funerale solitario e mi sentii abbracciare da una serena malinconia. Eravamo noi tre ad accompagnarla verso la Madre Terra. Sei braccia forti sorreggevano quel corpo che doveva essere sottile come un foglio di carta. Scendemmo con prudenza la rampa e poi con delicatezza posammo la cassa nel carro funebre. Guardai per l’ultima volta la bara di legno chiaro e l’accarezzai mentre il giovane metteva in moto. Gli chiesi se gli servisse una mano in cimitero e lui, chiudendo la portiera, mi rispose laconico “…in qualche modo farò…grazie…”. Guardammo la macchina nera scendere lungo la piazza deserta e poi girare verso Via Roma. Ritornò il silenzio e ricominciammo il nostro lavoro. Spalammo fino a quando si accesero i lampioni e quando chiudemmo casa era ormai buio. Salimmo in auto stanchi e bagnati mentre il freddo della sera ghiacciava la neve in strada. Il cielo era scuro e non si intravedevano i profili delle montagne. Finestre illuminate e fumo che usciva dai camini quasi sommersi dalla tanta neve depositata sui tetti. E aldilà del Cordevole, una bara di legno chiaro ed un’anima che viveva l’ennesima solitudine.