STORIE DI MONTAGNA
IL FULMINE
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Scegliemmo il lago del Coldai come mèta di quella camminata domenicale di fine luglio di qualche anno fa. Un cielo coperto ed un’atmosfera piuttosto umida ci accolsero a Palafavera. Salimmo abbastanza veloci lungo la strada che conduce a Malga Pioda. Breve sosta e poi su fino al rifugio Coldai dove bevemmo un caffè. Ancora una breve salita fino alla forcella e poi la discesa fino a giungere al lago sovrastato dall’enorme parete nord del Civetta. L’acqua era calma e poche persone passeggiavano lungo le rive. Le nuvole iniziavano ad addensarsi nonostante concedessero ancora qualche sprazzo di sole. Arrivò un vento fresco che increspava leggermente l’acqua del lago mentre la grande parete era ormai avvolta da pesanti nuvole che avvisavano che il tempo volgeva al brutto. Salutammo il lago e ci avviammo verso il rifugio. Le previsioni davano possibili temporali nel primo pomeriggio e l’idea era di arrivare alla macchina prima dell’arrivo del maltempo. Giunti a Malga Pioda il cielo prese il colore inequivocabile della pioggia. Decidemmo di scendere veloci verso Palafavera, erano soltanto tre quarti d’ora di cammino su strada sterrata. Se avessimo preso pioggia non sarebbe stato un gran problema. Era estate ed in macchina avevamo di che cambiarci una volta arrivati. Camminavamo veloci quando, improvvisa, arrivò la grandine. Nulla che potesse far male, i chicchi erano grandi come noccioline e non c’era di che preoccuparsi. Ci infilammo il poncho e continuammo a scendere. Nel frattempo il Civetta ed il Pelmo si erano vestiti con l’abito invernale. Lassù la grandine pareva neve e pure la temperatura si avvicinava a quella della stagione dei silenzi. Poi, dopo una decina di minuti, la grandine si trasformò in pioggia battente. Superammo una larga curva a sinistra e, quando ci apparve l’imponente parete ovest del Pelmo ammantata di bianco, accadde. Un bagliore azzurro ed accecante e contemporaneamente un tuono secco dal volume terrificante. Come fosse esplosa una mina a pochi metri da noi. Un urlo. Gli sguardi che si incrociarono sgomenti. Paura in quegli sguardi. L’aria carica di elettricità che sembrava entrare nel corpo bagnato. Terrore che si ripetesse mentre altri tuoni rimbalzavano sopra passo Staulanza e la pioggia continuava a scendere torrenziale. Sotto alla strada scorgemmo una casetta di legno, di quelle a servizio degli impianti da sci. La raggiungemmo, ma era chiusa. Ci rifugiammo sotto lo sporto del tetto. Presi i bastoncini e li lanciai nel prato il più distante possibile. Forse un eccesso di prudenza ma non volevo che attirassero altri fulmini. Dopo qualche minuto il temporale si placò e la pioggia diventò più sottile. Ripartimmo di buon passo, camminando sulla strada sterrata che si era scavata di profondi solchi che scaricavano rivoli d’acqua lungo quei prati che d’inverno sono piste da sci. Giungemmo al parcheggio che non pioveva più. Ma faceva freddo come d’autunno inoltrato. Ci cambiammo in fretta e ci infilammo in auto. Le montagne erano ancora avvolte da nuvole che non intendevano diradarsi. La strada iniziò ad asciugarsi appena superato Forno di Zoldo. A Longarone ritrovammo l’estate. Doveva essere un giro tranquillo da stare fuori poco più di mezza giornata. La montagna, invece, in quella uggiosa domenica di fine luglio insegnò che lassù nulla è banale. Che tutto ciò che fino ad un minuto prima è meraviglioso può improvvisamente diventare cupo e severo. Come nella vita che viviamo di questi tempi. E’ così la montagna, splendida e qualche volta severa. Come la vita. E sempre sarà così. Sta a noi adeguarci.