BELLUNO
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È terra strana Belluno Ovest: case anni ’50 inglobate fra alti condomini anni ’60 posti fra la ferrovia ed il Piave. Un variegato micromondo facente parte della piccola città, una quasi periferia distante appena un chilometro da Piazza Duomo. Terra di mezzo Belluno Ovest: volgendo lo sguardo verso Salce si poteva ammirare la libertà dei giochi nei prati, dell’andare a radicchi e dello scorrazzare in bicicletta di fronte alla caserma Toigo. E poi, con il passare degli anni, conquistare metro dopo metro la mitica Stradina di Salce. Ad ovest c’era la libertà, il vivere nomade durante i lunghi pomeriggi di primavera e quelli più corti dell’autunno. Ad est, invece, c’era il centro, il luogo della serietà e della compostezza. La terra degli uffici, delle scuole e delle chiese. “Don fin inte a Belun” diceva mamma in certe mattine infrasettimanali: e se andava bene era per andare ad acquistare il formaggio in Piazza Mazzini; se andava male, invece, era per attività molto più serie: come andare dal medico, forse a fare “le lastre” in qualche oscuro poliambulatorio; oppure a ritirare un cappotto al lavasecco o acquistare medicinali in farmacia. Quando accadeva di doversi recare dal medico la partenza avveniva pressoché all’alba. Un viaggiare a piedi per ben ottocento metri, passando quasi subito di fronte all’entrata del severo palazzo dell’ I.N.A.M. E chissà cos’era questo I.N.A.M, che un pò era uffici ed un pò ospedale, con all’interno direttori austeri ed impiegati vestiti di grigio e medici ed infermiere con i classici camici bianchi. Era il regno dei moduli da compilare e prelievi con le terribili siringhe di vetro multiuso: che strano posto l’I.N.A.M!! Pochi minuti più tardi si era già nella sala d’attesa del medico: almeno un paio d’ore che trascorrevano lentissime, consumate guardando le figure di qualche rivista vecchia di mesi fra colpi di tosse e racconti di acciacchi vari degli anziani. Poi finalmente il giungere del proprio turno, la rapida visita e successivamente lo scendere le scale con la ricetta cartacea scritta con calligrafia solitamente illeggibile. Aprivamo con quasi timore la porta a vetri ed entravamo in quel luogo austero. Ricordo il rispettoso silenzio dei presenti ed i bisbigli con i farmacisti. Mentre attendevo il mio turno mi guardavo intorno. Non era una farmacia come quelle moderne, con i farmaci contenuti in allegre scatole colorate che ti invogliano all’acquisto anche se stai bene. No, nella farmacia “All’Ospedale” era tutto bianco e grigio. Osservavo con timore le siringhe di vetro e le boccette con gli antibiotici. Leggevo i nomi post-moderni dei farmaci, che finivano immancabilmente con la lettera “x”. Ascoltavo l’accartocciarsi della carta piegata velocemente dalle mani ossute di quelle farmaciste serie e dallo sguardo severo. E le consulenze fra di loro condite di imprecazioni sottovoce cercando di tradurre le calligrafie impossibili delle ricette. Poi, dopo aver pagato, finalmente potevamo uscire da quel luogo odorante di disinfettante e tornare a respirare l’aria della Città Splendente. Talvolta ci si concedeva un giro veloce sotto i portici di Piazza dei Martiri; c’erano vetrine da ammirare, bar in cui sbirciare e quel dialetto infarcito di “zo” da ascoltare: che strano quel dialetto “de Belun”, con quelle “z” di “zarlatan” che rendevano nobili pure le sgridate che gli anziani mi riservavano ogni pomeriggio. Rimbombavano austeri fra le mura in cemento dei cortili quei “zarlatan” urlati a piena voce: forse correre in bicicletta e giocare a calcio erano attività che mal si conciliavano con la nobiltà di quei veri bellunesi che parlavano un dialetto così diverso dal nostro. Mentre passeggiavo sotto i portici pensavo che, per fortuna, a Belluno Ovest c’erano i prati in cui si potevano inventare ogni giorno nuove avventure: a Belluno Est sarebbe stato impossibile, nonostante ci fosse il Parco Bologna con i giochi, la sabbia e la pista di pattinaggio. Era cosa seria Belluno Est: uomini eleganti entravano ed uscivano da un grande portone, “chesta lè la banca” diceva mamma, e chissà se ci sarei entrato prima o poi. Pensavo alla mia “mosina” verde marchiata Cassa di Risparmio di Verona Vicenza e Belluno che tenevo sul comodino: forse, quando sarebbe stata colma di monetine, avrei potuto varcare con orgoglio quel serio portone, prima sicuramente no. Le nostre Colonne d’Ercole erano rappresentate dalle imponenti colonne del teatro Comunale, con la sue elegante scalinata e i due leoni di pietra che sorvegliavano l’entrata. Oltre il teatro l’ignoto. Per noi Belluno Est era luogo da visitare per necessità, pressoché mai per diletto. Ci si andava perché serviva andarci, poi, a commissioni terminate ci si incamminava alla volta della nostra Belluno Ovest. Lasciavamo quel centro città piacevole ma in alcuni angoli piuttosto austero: pure le campane del Duomo avevano un suono solenne, quasi pesante e severo. Non possedevano la squillante allegria di quelle di Cencenighe. A volte si saliva lungo via Loreto fiancheggiando un lato dell’Ospedale Civile che ormai era metà ospedale. Erano gli ultimi anni dell’interregno sanitario, con metà nosocomio situato nel nuovo complesso di Viale Europa e metà nel decadente palazzo di via Caffi. All’orizzonte si intravedeva la bella stazione dove, se avevamo indovinato l’orario, potevamo assistere alla partenza o all’arrivo del treno bianco e azzurro. Poi, dopo il breve show ferroviario, il rientro vero e proprio. Il passaggio pedonale di fronte all’Istituto Sperti e l’odore di ammoniaca del lavasecco che andava a mescolarsi con quello dei fumi delle caldaie a olio combustibile dei condomini. Quattrocento metri e si era a casa, nella nostra Belluno Est al margine dei prati e vicini al labirintico Cimitero Urbano di Prade. Ora tutto era più famigliare ed intimo: le case, i cortili, i prati che calavano verso il Piave. La serietà di Belluno Ovest in un lampo era già divenuta ricordo: ora era ritornato il tempo dei giochi e della bicicletta che scorrazzava in cortile. Il tempo del “…mama, pose dì dù sot a dugà…? Sì sì, ma vien sù co le ora de magnà…”. Scendevo nel grande cortile ed era gioia semplice e vera; un tempo breve, che sarebbe terminato al giungere dell’ennesimo “zarlatan” urlato da una delle finestre del più alto condominio di Belluno Ovest.
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