RITORNO IN CITTÀ
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Ero giunto ai piedi del Pelsa nel tardo pomeriggio di un venerdì di metà luglio. Nuvole basse, quasi freddo e pioggia battente: un’atmosfera novembrina, e pareva l’estate del 1987, quella della prima vacanza in Cadore di Papa Giovanni Paolo II e dell’alluvione in Valtellina. La campana batteva le diciotto, il Biois era tinto di marrone come accade sempre quando è nervoso ed io stavo ufficialmente iniziando le mie ferie estive. Tre settimane; un tempo lungo, certamente non come i quasi tre mesi di quelle lontane vacanze anni ’80, ma sufficiente per, come cantava Guccini, “tuffarmi in una vita ritrovata, vera e vissuta”. Una ventina di giorni buoni per ritrovare luoghi e momenti in quel paese dove molto è rimasto immutato o quasi. Il Biois ha sempre la stessa voce e di notte tiene compagnia come allora. E come allora, è in grado “de te fa saltà su dret de not” quando inizia a ruggire e “menà fora sas”: è accaduto una notte, proprio come accadde nell’estate del 1987. Pure le campane sono le stesse, ed anche il letto a castello dipinto di rosso ed i Topolino anni ’70, buoni per sorridere un pò prima di spegnere la luce e dormire. Tre settimane estive volutamente vissute un pò come allora: magari senza le partite di calcio giocate sul sagrato, ma allietate da belle camminate buone per riscoprire luoghi appartati e per raccogliere nuove storie e memorie. Poi, come sempre accade, pure le ferie si avviano verso la fine, purtroppo. Le serate sempre più fresche e le giornate leggermente più brevi sembrano voler avvisare che questo tempo dolce è ormai in scadenza. Finché, implacabile, ecco arrivare la domenica in cui il dover partire è solamente questione di ore.
…dal diario: si parte…
Lo zaino nel bagagliaio già dal pomeriggio. Il cenare un pò prima del solito e poi il partire verso Belluno. Prima seconda terza; partenza falsa. Prima dei “Carabinieri” metto la freccia e parcheggio nel piazzale. Mi concedo l’ultima passeggiata. Arrivo alla panchina di fronte alla centrale, poi torno indietro e faccio il giro “de Aoscan”. Giunto a pochi metri dalla macchina la campana grande inizia a suonare: mi piace pensare che mi voglia salutare. Ascolto lo sfumare dei suoi potenti rintocchi e poi parto, stavolta sul serio. La Strada Madre è deserta stasera. Ad Agordo le cime di San Sebastiano mostrano il colore del tramonto, poi, dopo Le Campe, si accendono fari e pensieri e ricordi di quando “se tornea ‘n du”. Ma allora accadeva ai primi di settembre e non guidavo io. Superato il curvone prima del Peron ritrovo l’estate della quasi pianura. A Mussoi inizia la città: manco da oltre tre settimane e stasera Belluno mi sembra più città del solito. Qualcuno passeggia in maglietta e pantaloncini corti: è proprio diverso il clima di quasi pianura. A Cence, di sera, uscivo a camminare con addosso la felpa. Proprio come durante l’estate del 1987. Arrivo a casa e inizia a piovere forte. Scarico zaino borse e scarponi e apro la porta. C’è aria “di chiuso”, così spalanco tutte le finestre. Poi la doccia, un pò di TV ed è già ora di andare a dormire che domani si ricomincia. Inizio la lettura di un libro che racconta storie di Cencenighe e alle undici decido di spegnere tutto e di tentare di dormire. Mi butto sul letto in modalità estate, ovvero “via par sora le cuerte”. C’è silenzio, un profondo silenzio: sono in città ma c’è un silenzio che fa quasi male. Non c’è il Biois stasera a farmi compagnia, e nemmeno la campana che batte le ore e pure le mezze ore. Non c’è quella macchina che passa ogni tanto. Non c’è nulla: soltanto il monologo del gatto rossiccio della vicina, che miagola con voce da basso dopo l’una, rompendo questo silenzio umido che non fa dormire. Il resto è notte trascorsa ammirando i numeri rossi della radiosveglia anni ’80 presa con i punti dell’Eurospar. Scorrono piano i minuti: poi, è già lunedi.
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