LE VOCI DELL’AUTUNNO
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Cercavo i primi segni dell’autunno in quel primo sabato d’ottobre. Scrutavo i boschi che avevano iniziato da poco il loro mutare, sentivo sulla pelle quell’aria che al giungere del buio a Cencenighe si tramuta in vento. Allo spegnersi del giorno decisi che quella sarebbe stata la sera ideale per ascoltare le voci dell’autunno. Partii a notte fatta, una mezz’ora dopo il suono della campana. Superato il semaforo posto lungo la Provinciale che sale a San Tomaso dovetti fermarmi: davanti a me, procedevano tranquillamente sulla carreggiata una femmina di cervo seguita dal suo erede che sfoggiava con orgoglio il suo primo palco. Le nostre strade si divisero una cinquantina di metri più avanti ed in meno di cinque minuti fui a Celat. Mi fermai un istante e spensi il motore per poter ascoltare i potenti bramiti dei cervi. Era da lassù, dove fioche occhieggiavano le luci “de Canazede”, che provenivano i primordiali versi. Decisi di raggiungere quel pugno di case abbarbicate al ripido pendio che scende dal Piz Zorlet. Salii lungo la ripida strada con cautela: talvolta i fanali illuminavano gli occhi di numerose femmine di cervo che pascolavano sui prati che incombono sulla rotabile. Fermai la Panda poco prima di raggiungere i 1364 m. di Canacede e, spento il motore, per una volta non trovai il consueto silenzio della montagna ad attendermi. Versi gutturali squarciavano il buio d’ottobre, ed ogni verso sembrava voler rivelare l’animo di ognuno di quei cervi in cerca d’amore. C’era il tono più acuto di quello situato nella zona della forcella e quelli più metallici dei due esemplari che bramivano poco sopra la frazione. Poi lo sbraitare quasi disperato di quello che bazzicava nella zona di Costoia e quello più grave e profondo che proveniva dai prati di Fradòla. Un rispondersi continuo da un versante all’altro con qualche momento di pausa in cui era la “zoita” a prendersi la scena. E lassù, le poche finestre illuminate delle case “de Canazede” parevano stelle posatesi sui prati che attendevano la prima “brosa” autunnale. Ascoltavo i bramiti, guardavo quelle fioche luci e pensavo agli antenati che un tempo vivevano aggrappati a questi versanti. Loro non possedevano la Panda, ma gambe buone ed un “feral” per quando dovevano recarsi a “caselo” ed era buio. Li immaginavo in certe notti d’inverno camminare sicuri lungo qualche “scurton”, magari anche loro in cerca di quell’amore che forse li stava aspettando in qualche “stua”; e mentre camminavano cercavano le parole da sussurrare all’orecchio della loro bella. Stetti un po’ ad ascoltare e pensare seduto sul cofano della macchina e poi mi incamminai fino a raggiungere la frazione più alta del comune. Avevo con me la pila, ma non l’accesi, non c’era bisogno. Bastavano i pochi lampioni per guidare il mio camminare nella semi oscurità di Canacede. Un cane abbaiava e un paio di TV accese rendevano vive quelle stanze dalle cui finestre, di giorno, si poteva ammirare la maestosità del Civetta. Mi fermai qualche minuto ad osservare le luci di fondovalle e poi ritornai sui miei passi accompagnato dai bramiti che provenivano dai prati che ripidi calano sul borgo. Mentre mi apprestavo a salire in auto udii un muovere nell’oscurità proveniente dal pendio sotto la strada: non lo vidi, ma lo sentii bramire con foga. Pareva volesse avvisarmi della sua possibile presenza lungo la strada, ed infatti, poco dopo, lo incontrai al termine di una curva a destra. I fari illuminarono un possente esemplare intento a cercare una potenziale compagna: vidi il collo inarcarsi verso l’alto, il grande palco rivolgersi all’indietro e poi lo spalancarsi della bocca. Uscì un verso primordiale e potente, rivolto nella direzione delle femmine che stazionavano lungo la scarpata. Esse lo guardarono perplesse mentre si accingeva a raggiungerle. Ripartii con cautela e pochi minuti più tardi parcheggiai in piazza a Celat. Soffiava un vento fresco d’inizio autunno, i lampioni illuminavano l’asfalto con la loro tranquilla luce arancione e si udivano in lontananza i bramiti dei cervi provenienti dalla zona di Pecol che andavano ad aggiungersi a quelli “de Canazede” e Costoia. Ma l’esemplare secondo me più imponente, almeno a giudicare dal verso possente, era quello che stazionava nella semi-oscurità dei prati di Fradòla. Scesi lungo la stradina che costeggia il muro del cimitero e, giunto nella zona dove si trova un cancello, mi fermai e mi appostai al buio. Dietro di me, a pochi passi, c’erano i nonni che vivono il loro sonno eterno di fronte al Civetta. Riconobbi i loro lumini elettrici e pensai che, per una sera, saremmo stati di nuovo insieme come non accadeva da troppi anni. Nel frattempo il grande cervo di Fradòla si mostrava piuttosto avaro di bramiti. Pareva voler centellinnare i suoi maestosi richiami: lo immaginavo passeggiare nervosamente al margine del bosco, con i sensi tesi ed una quantità industriale di adrenalina in corpo. Da quel punto potevo ascoltare in stereofonia tutti i bramiti che provenivano dalle frazioni alte; l’anfiteatro naturale che avevo di fronte amplificava i suoni di questo particolare concerto a cui stavo assistendo. Solo il battere del martello sulla campana regalava una musica più familiare. E fu proprio dopo gli undici rintocchi che accadde un qualcosa di inaspettato ed affascinante: vidi sbucare dal bosco un cervo che puntava deciso verso i campi che si trovano più in basso. Notai il suo incedere deciso e capii le sue intenzioni: questione di secondi ed anche il possente esemplare di Fradòla uscì dagli alberi ed in quei momenti ebbe inizio un feroce duello. La flebile luce dei lampioni illuminava il grande prato dove i due animali si stavano per contendere il predominio del luogo. Rincorsa di entrambi e scontro frontale che produsse un forte rumore come di spezzarsi di rami secchi. Li vidi divincolarsi dall’intrecciarsi dei palchi e poi ricominciare un altro violento assalto. Era battaglia cattiva, dura, spietata: la natura in quegli attimi mi stava mostrando un lato forse inusuale per l’uomo, eppure reale ed affascinante. Dopo cinque o sei attacchi lo sfidante lasciò il campo e ritornò sui suoi passi e poco dopo anche il grande cervo di Fradòla rientrò, da vincente, nel bosco. Stetti ancora un po’ in ascolto di quei bramiti che rompevano il consueto silenzio della notte, poi, al battere della mezza, salutai i nonni che riposavano aldilà del cancello e risalii lungo la stradina. La piazza era deserta e spirava un leggero vento carico d’autunno: guidai lentamente fino a giungere a Cencenighe dove venni accolto dal consueto canto del Biois. Poi fu una notte tranquilla e l’indomani fu prima pioggia d’ottobre…Magiche Dolomiti!!
LA RACCOLTA COMPLETA
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