AUTUNNO A CENCE
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D’autunno i pranzi del sabato erano i più rapidi della settimana. Un mangiare veloce, poi il caffè di papà, i piatti lavati al volo e subito dopo i preparativi per la partenza: destinazione Cencenighe. Non occorreva scomodare la valigia color vinaccia, bastavano un paio di borsoni e “calche sportola” per contenere il necessario per il nostro soggiorno agordino che sarebbe durato poco più di ventiquattro ore. Il più felice di tutti era il cane Alì, che amava viaggiare in auto e fremeva dal desiderio di salire sulla Ritmo parcheggiata in cortile. Trentacinque minuti, a volte meno; questo era il tempo di percorrenza di quella 203 che allora era Strada Statale senza tangenziali gallerie ed autovelox. Un viaggio breve, ma un vero viaggio: trentacinque minuti, a volte meno, per passare dalla vita di quasi pianura a quella di montagna. Poco più di mezz’ora per arrivare ai piedi del Pelsa, dove le ombre del pomeriggio erano già scese a ricoprire la piazza e gran parte del paese. Il portone grigio da aprire con la chiave grossa, il premere il tasto del contatore e poi i due giri di chiave necessari per aprire la porta con il vetro ondulato. Un freddo umido ci attendeva in corridoio: un veloce posare le “sportole” in cucina mentre il cane prendeva possesso del suo cuscino giallo posto nell’angolo della “stua”. Era felice il piccolo Alì di ritrovare la sua Pantera Rosa di peluche, quella che mamma aveva vinto alle giostre di Lambioi giocando alla pesca delle rane meccaniche. Stupì tutti quell’insospettabile abilità pescatoria, e così il cane ebbe in dono quello che sarebbe diventato il suo gioco preferito. Nel frattempo la pòrtella della cucina economica marchiata Centa emetteva il suo primo cigolio: era potente la Centa, ingorda di legna ma dispensatrice di un calore bello, un calore che sapeva di casa e faceva stare bene. L’arrotolare un vecchio foglio di giornale che riportava la data di una domenica di quell’estate che oramai era ricordo lontano. Poi l’attendere dell’ardere vivo del fuoco e successiva chiusura del registro. E mamma che diceva “…va de fora a fa na caseta de skinele da cenì ‘n te bank…”. Era lavoro serio maneggiare la “ronconela” nera. Uscivo “…’n te burela…” e usavo uno scalino come “zok”. E la sfida era aprire in due la legna con un solo colpo: occorreva una perizia che ogni volta affinavo sempre di più. Sceglievo accuratamente “…le legne de pez…” che dovevano essere prive “de grop”, altrimenti niente apertura al primo colpo; il rischio, in caso “de grop” era quello di dover battere come un forsennato per disincastrare la “ronconela”: ed in più, oltre a non produrre “skinele”, prendevo pure freddo perché “…’n te burela…” tirava sempre aria. Quando i cerchi della Centa erano roventi era ormai sera imminente: la seconda campana suonava alle 18.15 annunciando la Messa della sera e, dopo la metà d’ottobre, pure l’arrivo della “brosa” che faceva scintillare i cubetti di porfido del sagrato. Alle venti, quando invece era la campana grande a suonare, uscivo di casa per la passeggiata serale del cane: vento che scompigliava i capelli e brina che faceva risplendere gli scalini in pietra della “porta piciola” della chiesa. Un giro veloce “inte par Vila” e ritorno lungo via Roma: rari fari d’auto illuminavano per qualche istante la piazza deserta mentre il canto del Biois accompagnava gli ultimi passi verso casa. Poi un pò di TV sdraiato sul divano, mezzo infilato nel sacco a pelo e con zapping limitato a quattro o cinque canali. L’ultima “legna de frasen ‘n te fornela” e l’iniziare una lunga notte “inkuzignà sot le cuerte” al piano superiore del letto a castello. Era notti di sogni e fuoco morente, di rintocchi della campana che batteva le ore e di muovere del cane Alì che passava dal divano alla poltrona. Scorrevano le settimane, ed i risvegli domenicali erano sempre più freschi ed il Bosk dal Forn era sempre più colorato d’autunno. Nei giorni “dai Sant e dai Mort” la stagione dei colori era al massimo, con l’aggiunta del bianco della “brosa” a rendere più suggestivo l’andare per cimiteri. Dai Santi in poi ogni fine settimana era guadagnato e poteva essere l’ultimo trascorso a “Cence”. Quel tempo sarebbe terminato all’ingrigire dei larici, poi i Cavalieri della 203, nelle loro scorribande domenicali, avrebbero bypassato Cencenighe per fare rotta verso San Tomaso: dove avrebbero trovato i nonni che trascorrevano il loro ennesimo inverno di fronte al Pelsa. La domenica pomeriggio, mentre si accendevano i lampioni della piazza, si spegneva l’ultima “bronza” nella “cosina economica”. Era l’ora dei camini che fumavano più decisi mentre il nostro andava spegnendosi: caricavamo i borsoni e le “sportole” divenute più leggere nella Ritmo e poi via, destinazione Belluno. Chissà se torneremo sabato prossimo, mi chiedevo mentre i fari illuminavano l’asfalto che iniziava a ghiacciare. Una domanda che trovava risposta nei giorni successivi: “…sabo che vien don su e domenega sere le acque e bon…”. E con la chiusura “del rubinet dele acque” si chiudeva un’altro semplice e indimenticabile autunno di mezzi sabati e mezze domeniche vissute ai piedi del Pelsa…Magiche Dolomiti!!