CORTILI
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Nel 2021 regna il silenzio nei cortili della piccola città. Non c’è più il fragoroso risuonare metallico dei portoni dei garage presi a pallonate. E nemmeno il vociare allegro di una decina di ragazzini impegnati nel rincorrere il mitico Tango. Non si sentono più quei perentori “tira!!…passa!!” che rimbombavano fra quei muri ricoperti di edera rampicante. È terra di condomini la zona ovest di Belluno: e pressoché ogni palazzo possiede un cortile con una sua particolare foggia e dimensione. Quell’urbanizzazione quantomeno affrettata propria degli anni ’60 si dimenticò completamente dell’esistenza dei bambini: così, mentre gli alti palazzi si innalzavano verso il cielo, nessuna area verde attrezzata per scopi ludici, venne realizzata. Così, noi ragazzini nati un decennio più tardi dei condomini, ci trasformammo in “cacciatori di cortili” alla disperata ricerca di un luogo dove poter giocare preferibilmente a calcio. Quasi ognuno di noi aveva il “suo” cortile che poi non era suo ma era “condominiale”: il “mio” era il più grande ed era perfetto per disputare agguerrite partite. Calcammo quell’asfalto per un pò di tempo, fino al triste giorno in cui apparve un severo cartello che recitava “vietato l’accesso e gioco del pallone”. Una fine annunciata da centinaia di “zarlatani” urlati con cattiveria gratuita dalle finestre del grande palazzo. Voci austere di anziani a cinquant’anni misero fine al nostro innocente giocare. Egual destino si compì in altri cortili fin quando, chissà per quale scherzo del destino, riuscimmo finalmente ad accasarci in quello del cosiddetto “condominio bianco”. Mai nessuno ci cacciò da codesto luogo, e col senno di poi non è pensiero ardito considerarlo una sorta di “miracolo”. Fu così che il cortile del “Condominio Bianco” divenne la “Scala del nostro calcio”. La regola fondamentale per potervi accedere era che doveva essere presente almeno un bambino che abitava nel palazzo. Il numero ideale per giocare in questo piazzale era circa otto/dieci bambini. Con meno giocatori si doveva ricorrere all’oscura figura del “portiere volante”, con eccesso di ragazzini invece si rischiava la confusione. Per fare goal occorrevano ovviamente due porte. Una era direttamente il muro con due piccole fioriere a fare da pali. L’altra aveva un palo solo, ovvero la grondaia. L’altro palo solitamente era una felpa di qualcuno di noi. Le traverse erano un po’ immaginarie: dalla parte del muro poteva essere una macchia di muschio a fare da riferimento, dall’altra era la statura del portiere. E spesso l’assegnazione del goal era frutto di paziente mediazione da parte delle due squadre. Era un’attività istruttiva la mediazione. Alla fine si riusciva sempre a mettersi d’accordo pur con snervanti discussioni modello trattative USA/URSS piuttosto in voga in quegli anni. Al termine della preparazione del campo si provvedeva a “fare le squadre”. Ed era impresa per nulla facile. Occorreva fossero equilibrate per giocare delle partite divertenti. Così andava in scena un’altra paziente opera di mediazione. A me piaceva giocare in porta. Non perché non amassi correre, anzi. Ma perché amavo proprio quel ruolo. Un’indole rara, perché fare il portiere è una vocazione che va aldilà del calcio. Non possedevo grandi doti acrobatiche, ma avevo coraggio e soprattutto senso della posizione. Ed una grande serietà nel recitare quel ruolo: quasi una sorta di Dino Zoff in miniatura. Il gioco si sviluppava velocemente in quanto privo del fallo laterale; era valido il gioco di sponda in quanto provvedere alle rimesse in gioco sarebbe stato troppo macchinoso. Talvolta accadeva che durante le partite più accese il pallone volasse fuori del cortile e prendesse la strada in discesa che porta in via Feltre. Una giusta procedura imponeva che dovesse essere l’autore del tiro a recuperare la sfera. Ed allora ecco un correre a perdifiato lungo la scalinata, con successivo scavalcamento della ringhiera e corsa in apnea mentre il pallone scendeva ineluttabilmente verso la trafficata via. Si trattava di impresa piuttosto ardita ma fortunatamente non accadde mai alcun incidente durante il suddetto recupero. Nulla poteva interrompere quelle partite giocate a ritmo forsennato. Solamente la parola “bandus” aveva questo potere. In quel caso tutto si fermava come in un “flash mob” calcistico. Era segno che era arrivata la sete e bisognava recarsi in qualche garage provvisto di lavandino e rubinetto. Placata la grande arsura si ricominciava incuranti delle ore che passavano. Si praticava un gioco duro ma corretto. Qualche sbucciatura per le cadute sull’asfalto, botte a cui nemmeno si faceva caso. Non ricordo nessun infortunio grave. Nessun genitore assisteva mai a quelle partite. Genitori e bambini vivevano in mondi separati ed in fondo era giusto così. Eravamo liberi di divertirci con le nostre regole auto-imposte che sempre venivano rispettate alla lettera. Poi, con il tempo, il calcio da cortile cessò di esistere: nessuno raccolse la nostra eredità ludica e calò un solenne silenzio su quel rettangolo di asfalto. Oggi nei cortili della piccola città regna il silenzio: un pò perché mancano i bambini e quelli che ci sono sono impegnati in attività ludiche più “professionali”. Niente più grida, niente più corse su quell’asfalto consunto: soltanto un tacere che racconta il vivere ormai antico vissuto al margine ovest della piccola città.
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