ANIME
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Un chilometro e settecento metri di strada sterrata. Duecentocinquanta metri di dislivello per giungere in quel borgo “da onde che se vedea du Zenzenighe e ades no se vez pi nia parchè le pien de alber”. Poco più di venti minuti per arrivare lassù dove regna il silenzio.
Quando vado a camminare da solo da quelle parti, mi pongo le domande più disparate mentre fatico in salita: chissà come vivevano in quelle case “co la caminaza”, come agivano quando qualcuno stava male ed occorreva un medico. E poi d’inverno, con il freddo di allora. E quando una donna era prossima al parto e fuori c’erano due metri di neve. Provo ad interrogare la case silenti, cerco di carpirne l’anima e la storia. A volte mi pongo domande difficili, forse pure brutali e sbagliate: ci sarà stata felicità in quel vivere in questi villaggi aggrappati alla montagna oppure saranno stati soltanto duri sacrifici? Le domande ed i “perché” si accavallano mentre osservo le piccole finestre con gli stipiti in pietra. E le case rispondono con un semplice e serio “era così” che un pò mi spiazza. Poi qualche volta accade di parlare con chi le ha conosciute quelle vite, e le risposte alle mie domande sono identiche a quelle ottenute dalle case silenziose. Poco più di venti minuti per arrivare al villaggio silente. Con i miei scarponi di marca in Goretex, i bastoncini e l’orologio cardiofrequenzimetro GPS eccetera che mi dice che attualmente sono abbastanza allenato. Chissà quanto tempo impiegavano per salire d’inverno muniti “de scarpe da fer”, mi chiedo: sicuramente meno di me. Che per me è passeggiata per fare un pò di gamba, ed invece per loro andare sù e giù era la vita. Mentre cammino guardo gli alberi e il Pelsa. Ho ereditato il colore degli occhi di quegli avi che salivano e scendevano due volte al giorno per mungere le vacche e dar loro da bere e da mangiare. E un pò mi emoziona pensare che quegli occhi uguali ai miei vedevano anch’essi il Pelsa. Tutto cambia nel tempo, le montagne no. Quelle sono sempre lì a ricordarci chi siamo e da dove veniamo. Oltre agli occhi ho ereditato pure la struttura fisica de “chi da Prademez”: e mentre sto per raggiungere le silenziose case, penso che sto salendo per scrollarmi di dosso la settimana in fabbrica e per tentare di mantenerlo in forma questo fisico asciutto. Ed è in fondo un diletto. Loro, al contrario, salivano a Pradesora per lavorare la terra e governare gli animali. Ed era vita dura. Loro mangiavano “a metri zero”, ma il cibo non abbondava sicuramente. Noi, al giorno d’oggi, spesso mangiamo troppo e male. È davvero cambiato tutto in meno di un secolo. Solo il Pelsa è rimasto uguale. Lo ammiro mentre cammino in salita, chissà loro come lo guardavano. Se si emozionavano come accade a me quando vedo i boschi colorati d’autunno. Chissà. Poi, arrivato al borgo, cerco Cencenighe fra gli alberi oggi troppo fitti. E mentre osservo sento il suono festoso delle campane che arriva fin qui. Chiudo gli occhi, ascolto i rintocchi e lo scorrere dell’acqua che non c’era. Poi li riapro e di fronte c’è il Pelsa con le ultime chiazze di neve sotto il Mont’Alt. Ora non mi faccio più domande, mi siedo sul “festil” e guardo i prati che un tempo erano in parte fertili campi e penso a chi c’era prima: ai primi di luglio era tempo di fieno, “de bate le faoz” con abilità e sapienza. Mi sembra di vederle lavorare quelle anime sotto al caldo sole d’estate: qualcuno falcia, altri “i restelea”: poi si concedono una pausa, si asciugano il sudore sulla fronte e mi raggiungono per dissetarsi al “festil”. Sorridono e poi, con tono sarcastico, mi dicono “bravo che hai impiegato solo ventuno minuti, ma noi ne impiegavamo diciotto co le scarpe da fer”. Ridiamo e poi ascolto i loro racconti di vita, di sacrifici e fatiche vissute di fronte alla grande montagna. Quei racconti che narrano di un vivere che non esiste più; “… le storie de la mè val, dela mè dent, dela mè tera…”…Magiche Dolomiti!!
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