LA STANZA DAI MURI ROSA
AUDIO
La casa dagli scuri celesti giaceva silenziosa a mezza costa, a qualche decina di metri al di sotto della strada provinciale. Era sorta nell’immediato secondo dopoguerra su di un pianoro ricavato a colpi di mazza. Sudore, fatiche e sacrifici per costruire quella casa dalle cui finestre lo sguardo poteva spaziare fino a raggiungere le due cime dello Spiz de Medodì. Era la stanza dai muri rosa, quella collocata nel lato est, a godere del privilegio del panorama migliore; da una finestra si ammirava il Pelsa, dall’altra invece, lo sguardo, dopo aver sfiorato i rami più alti della vecchia “zaresera” e aver oltrepassato “la casa dell’eco”, quella il cui muro rifletteva le mie urla di bambino, si perdeva “fora par la val”. D’autunno non era ancora tempo di dormire sul “fornel” durante i miei soggiorni montani pre-scuole elementari; dormivo nella stanza vegliata dal viso di Papa Giovanni XXIII. Andavo a letto presto, appena terminato il TG1. Paolo Frajese salutava i telespettatori ed io salivo la scala di legno e mi infilavo sotto il piumone beige con i cani stampati. E dalla finestra potevo veder spuntare la Luna sopra il Pelsa. Poi i passi della nonna sul pavimento di linoleum grigio, il sedersi sul letto e l’iniziare le “orazion”. Era un momento serio. Che metteva pure soggezione a volte ascoltando quelle parole severe pronunciate quasi sottovoce. Versi carichi di fede e rispetto; c’erano la Croce, “l’oio Santo” e soprattutto “la camera zhal”; che chissà cos’era questa “camera zhal”. Si narra che significasse “camera d’acciaio”, e francamente incuteva un pò di timore. Poi, dopo le “orazion” calava una grande quiete nella stanza dai muri rosa. Una camera da letto pressoché quadrata con il soffitto piuttosto basso, che già a quattordici anni riuscivo a toccarlo senza saltare. Un letto, la lampadina “col piat” bianco di ferro smaltato con il bordino blu. E l’impianto elettrico “co la piatina”, ovvero con i fili elettrici a vista fissati alle pareti con i chiodini. Ed infine l’interruttore a peretta che penzolava con i fili mezzi scoperti sopra la testata del letto. Il tutto ovviamente senza salvavita. Che la vita di chi utilizzava l’interruttore a peretta, forse era salvaguardata da quelle “orazion” in simil-latino pronunciate prima di dormire. Anzi, senza forse, sicuramente era merito delle “orazion”. Ed un buon contributo per avere salva l’esistenza nonostante le pericolose termocoperte acquistate su Postalmarket, lo dava pure il Papa Buono. Quel Papa Giovanni XXIII nato a Bergamo, il cui viso era stampato sul piatto appeso sopra lo specchio posto sopra il comò di fronte al letto. Mi raccontavano fosse stato davvero un bravo Papa, ed una volta ci recammo pure a Bergamo a visitare la sua casa e pure la città. Avrò avuto cinque anni, e fu una bella giornata quella trascorsa in terra lombarda. Fu giornata uggiosa ed al ritorno ci tamponarono nei pressi di Padova. La Ritmo rientrò a Belluno un pò acciaccata ed io potei vantarmi per parecchio tempo di essere stato a Bergamo. Chissà cosa pensava il Papa Buono ascoltando le “orazion” della sera pronunciate nella penombra della stanza dai muri rosa; secondo me apprezzava e sorrideva, nonostante il latino un po’ zoppicante. La nonna mi sistemava le coperte e poi usciva dalla stanza dai muri rosa. L’ascoltavo scendere le scale di legno mentre nella penombra scorgevo appena la sagoma nera del piatto con impresso il viso del Papa Buono. Poi m’infilavo al caldo sotto il soffocante piumone e nel muovermi, l’interruttore a peretta con i fili mezzi scoperti oscillava grattando sulla parete dipinta di rosa. Ma noi avevamo detto le “orazion” e a proteggermi c’era Papa Giovanni da Bergamo. Avrei potuto dormire tranquillo, senza il rischio di folgorarmi, nel silenzio di un’altra notte vissuta fra le montagne agordine. Poi il tempo fece il suo inesorabile corso e gli scuri celesti si chiusero per oltre cinque lustri; e nella stanza dai muri rosa dormì solamente il silenzio. Fino ai giorni nostri, fino ad una recente sera di stelle e Luna piena che illuminava le creste innevate del Pelsa. Ora la stanza dai muri rosa non è più la stessa di allora: le pareti sono dipinte di bianco e non ci sono più le “lastre” che lasciavano entrare il canto perenne del Rù da Ghisel; però le due finestre che guardano la valle sono ancora al loro posto. Al piano di sotto nessuno si sveglia prima dell’alba “par dì a mòdhe la vacia”: le vite cambiano, qualcuno nel frattempo è cresciuto e chi c’era prima ora riposa da tanti anni sotto la chiesa di fronte al Civetta. Ma ciò che si può ammirare aldilà dell’odierno vetrocamera è ancora uguale ad allora: gli uomini cambiano, le montagne no. È stata notte di poco sonno e tante stelle, di luna piena che illuminava la valle e ricordi di sere silenziose e lontane. Ritornavano attimi e storie mentre la Stella del Pelsa brillava a mezza costa. Poi, il pomeriggio successivo, al tramontare del sole, proprio come accadeva allora, ho imboccato la Strada Madre che mi ha ricondotto nella piccola città, dove ci sono meno stelle nel cielo e mancano le cime cariche di neve di fine autunno. “…zerche n’cora le stele stasera; ma no cate chele che vedee sora el Pelsa d’invern. Cande che anca el ziel l’era ingiazà e ‘l fret taiea le rece. Cheste che vede le stele pi strake, stele de cità. Par che le ave fin manco forza, no le fa chel ciaro che fa brilà i oci e bate ‘l cor. Chele sora el Pelsa inveze le fea ‘n ciaro che iluminea le zime piene de nef. Se le vardea la domenega sera prima de tirase ‘n dù. Mi e mè pare se meteane apena fora de cantina e par calche momento vardeane el ziel. L’era bel sta là in te chela giazera de invern a vardà par aria. Domai nef d’intorn e lasù, apena sora ‘l Mont Alt, tuta na luminaria. Vardeane imbacucai ‘ntele giache a vento, coi det dele man che deventea ros dal fret e i oci piein de marevea…”…Magiche Dolomiti!!
*****