GHISEL
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Un pugno di vecchie case abbarbicate lì dove nasce il Pelsa. Un borgo allora abbandonato, enigmatico e austero, misterioso e silente. Ghisel, frazione di Cencenighe; il panorama obbligato che si ammira dalla casa dei nonni a San Tomaso. Erano affascinanti quelle abitazioni e quei tabià che potevo scorgere aldilà della Val Cordevole; una sorta di villaggio fantasma come quelli dei film western che, come una calamita attirava gli sguardi e accendeva la mia fantasia di bambino. Bastava uscire di casa oppure affacciarsi ad una delle finestre della “stua” ed ecco che, in basso a destra, appariva Ghisel. Luogo severo, duro, battuto dal vento, dove al mattino la luce del sole arriva tardi e d’inverno è “brosa” perenne che imbianca quei prati che un tempo erano fertili campi. Guardavo la grande radura con le case poste al margine sud e mi chiedevo come mai tutto fosse abbandonato; e volava la fantasia mentre lo sguardo curioso si posava sul fianco del Pelsa. Forse un terremoto, o magari un tornado come quelli dei telefilm americani, aveva fatto scappare le persone e rovinato i tetti; chissà cos’era accaduto veramente. A volte chiedevo qualche ragguaglio in merito, ma le risposte erano quasi sempre evasive; forse non c’era la voglia di raccontare l’oblio di quell’angolo di mondo sovrastato dall’imponente parete di roccia. Era affascinante sentir raccontare di quando c’era più silenzio nella valle e “se sentia descore chi via a Ghisel”; e poi “de cande che l’era tut somenà fin dù sot onde che lè i tralici de la corente”. Talvolta entrava in scena anche “Béte”, e allora quei brevi racconti sconfinavano nella leggenda. Si narrava che aldilà del Rù da Ghisel, un tempo ci fossero altre case; “lè era la via, onde che se vez encora ‘n cin de prà”. Guardavo e non vedevo nulla; nemmeno con l’aiuto del binocolo della nonna, che avvicinava quel mondo silente ma non riusciva a svelarne i misteri. Non c’era nulla “via a Béte”, nemmeno un muro di pietre, una parete rimasta in piedi, oppure i resti di un tabià; niente di niente, solamente il buco nero “dela galeria de l’ENEL” che appariva “cande che dea dù la foia”. “Béte” forse era davvero una leggenda antica che di notte era puntualmente narrata dal malinconico canto del “bereghel”; Ghisel, invece, c’era davvero ma sembrava immobile, chiuso in un ostinato tacere, indifferente al fragore provocato dalle potenti “levine” che alla fine di aprile scendevano lungo i canaloni del Pelsa e al rombo dei motori delle motociclette e dei camion che salivano e scendevano lungo la 203. A fine ‘800 ben cinquanta persone abitavano “su chela costa batuda dal vent”; poi il progressivo calo fino all’ abbandono definitivo “da l’aluvion”. Che questa “aluvion” aveva segnato il destino dei paesi e della loro gente ed era diventata una sorta di anno zero; un tempo finiva e un tempo nuovo tutto da costruire nasceva. “Prima de l’aluvion e dopo l’aluvion”; un confine temporale che ancora oggi i più anziani utilizzano per collocare i vari eventi della vita di quegli anni. Guardavo Ghisel e tutto mi sembrava perduto; pensavo che quando sarei stato più grande non avrei più visto le poche case e i tabià, ed invece mi sbagliavo; non sapevo che il destino nel frattempo aveva offerto un’altra chance al villaggio fantasma. Lungo la 203, nel tratto fra Cencenighe ed Avoscan, si scorgeva un timido cartello giallo alla fine del lungo viadotto, un po’ prima della galleria paramassi; “Oasi Papa Luciani” recitava il cartello collocato all’inizio del sentiero che sale a Ghisel. “Lè i previ che iè drio a fa valk via là”, ed era tutto ciò che allora sapevo. Un barlume di vita, una fiammella a rischiarare quello che sembrava un oscuro destino per la frazione misteriosa. Non potevo immaginare, allora, che quel timido cartello giallo era lì a rappresentare l’inizio di una nuova vita per Ghisel. Un lavoro paziente, discreto, durato anni, vegliato, mi piace immaginare, dal Pontefice agordino nato centodieci anni fa a Forno di Canale. Oggi Ghisel vive una vita diversa da quella che fu; anno dopo anno tutto è stato reso accogliente rispettando l’architettura originale dell’abitato. E’ stata costruita pure una chiesetta con un piccolo campanile ed è molto suggestivo ascoltare i gioiosi rintocchi della campana nelle sere d’estate. Rintocchi che si mescolano alle voci dei giovani che scelgono questo angolo del Pelsa per trascorrere i loro soggiorni montani. Ghisel 2.0 ha una pagina Facebook ma non ha una strada per arrivarci; per raggiungerlo occorre percorrere un sentiero in salita che in poco più di venti minuti conduce in questo luogo suggestivo dove si mescolano presente e passato. Ghisel, l’Oasi Papa Luciani; c’è ancora quel cartello giallo al termine del lungo viadotto, ed ogni volta che passo di lì lo guardo sempre con affetto. Esso racconta di un mondo ritornato in vita, di antiche mura che oggi ascoltano voci e dialetti diversi da quelli di un tempo; e mi ricorda quei tempi lontani passati a scrutare quel villaggio che ancora oggi mi affascina, proprio come allora…Magiche Dolomiti!!