INCONTRI
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Ero arrivato a Pradesora una domenica mattina d’aprile, all’ora in cui le campane della chiesa di Cencenighe suonavano potenti annunciando la Messa. Era primavera da quasi un mese, ma lassù, quel giorno, ho ritrovato l’inverno. Atmosfera umida e lattiginosa, nuvole pesanti che avvolgevano il Pelsa e sensazione di “sburia d’aoril” imminente. C’era ancora la neve a ricoprire i prati sotto alle vecchie case; una neve anziana, dura e spigolosa, rugosa, lavorata da pomeriggi tiepidi e fredde notti di stelle, che raccontava il lungo e lento scorrere della stagione dei silenzi. Ho posato lo zaino accanto allo spigolo in pietra di una casa e mi sono incamminato lungo la mulattiera dirigendomi verso il bosco. Ho raggiunto il “festil” dove “l’acqua che non c’era” scendeva con getto deciso bucando il ghiaccio ormai sottile presente nell’incavo di larice e poi, pochi minuti più tardi, mi sono fermato nei pressi dell’antica “calchera”. Dopo qualche istante ha iniziato a scendere pioggia mista a neve; la “sburia” ora era realtà ed era arrivato il tempo di salutare quelle pietre cariche di storia e ricoperte di muschio e “foie de fagher”. Ho raggiunto in fretta la casa mentre le pesanti e fredde gocce si stavano trasformando in neve d’aprile ed è mentre imbracciavo lo zaino che i nostri sguardi si sono incrociati. Ora io non conosco il nome preciso di quegli oggetti dalle fattezze umane utili a bloccare in posizione aperta gli scuri delle finestre; qualcuno li chiama “popò”, altri invece “omenet”. Io, da bambino, li chiamavo “poles” quella sorta di ganci ad incastro dalla forma di viso di donna e uomo nati dell’ingegno e della fantasia di antichi artigiani. E chissà perché tali artigiani decisero che, a godere della luce del giorno fosse quel viso severo e aristocratico di uomo baffuto e a vivere la notte, invece, fosse quel viso di donna somigliante alla “vecia de spade”. Mi ponevo questa domanda mentre “el poles”, nella sua versione uomo, mi scrutava con il suo sguardo enigmatico e austero. La neve bagnata scendeva sempre più copiosa e a me venivano in mente i “poles” identici a quello che mi stava osservando, montati a lato delle finestre della casa dei nonni. Incutevano un pò di soggezione questi “poles” baffuti dall’aria aristocratica, ed io li trattavo sempre con grande rispetto. “Va a serà i scur”, mi diceva la nonna poco prima che venisse buio. Così uscivo nell’oscurità della quasi notte e il “poles”, che aveva scrutato con attenzione il mio giocare pomeridiano, lo dovevo necessariamente maneggiare. Lo alzavo delicatamente e lo accompagnavo con delicatezza nel suo capovolgersi. Era in quel momento che compariva il volto della “vecia de spade” che avrebbe ammirato per lunghe ore la luna e le stelle. All’alba, invece, sarebbero state le mani forti del nonno a rimettere in posizione eretta i “poles”, e sarebbe stato l’uomo dai grandi baffi spioventi ad assistere allo spuntare del sole sopra il Pelsa. Ora era giunto davvero il tempo del mio andare, del dover salutare le antiche case di Pradesora e pure “el poles” che ancora mi osservava con il suo sguardo accigliato. L’ho accarezzato prima di incamminarmi sotto a quella neve d’aprile, ma non capovolto come facevo all’inizio di quelle sere lontane; ho lasciato che il suo sguardo severo potesse continuare ad ammirare l’innevato versante nord delle Pale di San Lucano, che quella mattina si stava ricoprendo di neve nuova di primavera…Magiche Dolomiti!!
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