LA STRADA DELLA SOLITUDINE
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È domenica pomeriggio, il sole ha smesso di illuminare la cima del Pelsa, la campana ha già battuto cinque rintocchi e per me è il tempo del mio consueto partire da Cencenighe destinazione Belluno. È l’orario più sbagliato per mettermi in strada ma tant’è, oggi non ho particolare fretta. Alla rotonda di Ponte Alto trovo l’imbrunire e il traffico fermo; non ho granché voglia di fare tira e molla per chilometri, così, dopo breve pensare, mi dico “ma sì dai, per una volta facciamo come un tempo, quando la 203 era chiusa per incendi e si percorreva la strada del Mis”. In realtà, oggi probabilmente non converrebbe nemmeno compiere codesto tragitto impervio, ma questo pomeriggio ho voglia di qualcosa di diverso; mi va di raccogliere impressioni e capire il vivere d’inverno in quella valle parallela alla Val Cordevole. Così esco dall’immobile fila di auto cariche di sci e imbocco la salita che conduce a Rivamonte. Dopo un paio di tornanti percorsi con prudenza causa fondo stradale “desconegà”, rallento per osservare la riga di fanali che a fondovalle procedono a passo d’uomo lungo la Strada Madre; centinaia di auto in colonna ed io invece da solo a percorrere quella che al momento battezzo come la “Strada della Solitudine”. A “Riva” incontro la notte, i camini fumano decisi e la neve ghiaccia sui prati; osservo le finestre illuminate delle case e penso a questi paesi, alla loro storia e alla loro gente. Terra di minatori e di “careghete”, un mestiere, quest’ultimo, che è vera e propria arte; non ho mai avuto il privilegio di vedere dal vivo un “caregheta” all’opera, però mi è capitato di vederne in TV, e sono rimasto affascinato da questo “saper fare” con le mani e con la testa. E chissà come si dice in lingua “Scapelament del konzha” “oggi per tornare a Belluno percorro la Valle del Mis”. Pensieri che mi accompagnano fino al bivio di Tiser, dove ha inizio la discesa che mi porterà all’imbocco della valle vera e propria. È perfetta solitudine quella che sto vivendo; la strada completamente deserta mi permette di raggiungere in breve tempo il ponte in ferro che conduce a quel sogno infranto che porta il nome di California; ecco, mi dico, ora inizia per davvero il Canal del Mis. Penso alla situazione strana che sto vivendo; aldilà dei Monti del Sole il serpente d’auto che si muove alla moviola lungo la 203, qui nemmeno un’auto oltre alla mia. Nel frattempo la macchina mi avvisa che la strada potrebbe essere ghiacciata, e ha ragione; zero gradi e la luce degli abbaglianti illumina l’asfalto che inizia a luccicare. È il momento di alzare le antenne; io e la Provinciale del Mis ci conosciamo da un quarto di secolo ormai, conosco ogni curva a memoria e, proprio per questo, non do nessuna confidenza alla strada della valle. Ho sempre dato del “Lei” a questa strada storica e affascinante ma severa; occorre portarle rispetto e percorrerla con la dovuta prudenza soprattutto d’inverno. Non è strada da autoradio a bomba e pensare a tutt’altro; ci pensa lei a fartelo capire appena imboccata la prima serie di micro-gallerie. È oscurità ormai profonda e oggi non si può ammirare la natura potente e primordiale della valle; meglio restare concentrati e procedere con prudenza perché questo richiede il tracciato. Alla seconda serie di micro-gallerie mi devo fermare; ci sono un po’ di sassi in strada e non si possono evitare perché la carreggiata è a misura di vettura. Così scendo e alla luce dei fari rimuovo le pietre dall’asfalto. Un lavoro da pochi minuti che svolgo con calma; tanto, mi dico, potrei stare qui tutta la sera senza essere d’intralcio a nessuno. Mentre sposto i sassi a bordo strada, a farmi compagnia ci sono la quiete della sera appena iniziata, il rumore del motore al minimo, la luce dei fari che illuminano l’asfalto, la gran solitudine della valle e le classiche paure inconsce da luogo cupo e isolato; è un po’ strano, in effetti, essere da queste parti al buio da solo, ma poi ritorna un po’ di sana razionalità che mi fa assaporare il momento particolare. Mi vengono in mente le solite domande che mi pongo d’estate, quando vengo da queste parti a cercare il fresco; domande che oggi assumono un valore decisamente diverso. “…ma come facevano a vivere da queste parti, in questa valle apparentemente avara di tutto, come trascorrevano i giorni d’inverno simili a questo che sta terminando…”. La risposta è sempre quel “era così”; due parole soltanto che contengono la durezza di quelle vite aggrappate ad un territorio difficile ed aspro. I pensieri scorrono insieme all’acqua del Mis, poi il ronfare al minimo dell’Alfa mi ricorda che è ora di andare. Una serie di curve intervallate da qualche breve rettilineo mi conducono a quello che è il confine fra l’agordino e la Valbelluna; altra breve sosta, questa volta senza scendere dall’auto. L’osteria della Stua è un profilo appena accennato nel buio; e chissà quanta vita c’era fra quelle mura in serate d’inverno come questa che sto vivendo. Saranno state partite a carte, qualche ombra, fumo di trinciato e tanta umanità. Oggi invece da queste parti regna il silenzio di fine gennaio. Il lago, illuminato dalla luna, ha un’aria stanca; il livello è basso e le acque riflettono la luce dei potenti riflettori della diga. Ormai manca poco per uscire dalla valle; pochi chilometri, la serie di gallerie ed ecco la Valbelluna che appare come un notturno cielo stellato. Poi la severa serenità che trasmette la Certosa di Vedana, i cumuli di ghiaia delle Masiere e, aldilà del Cordevole, la Strada Madre ingombra d’auto che mi attende. Ciao Strada Provinciale 2 “della solitudine”; tornerò ancora a calcare il tuo asfalto, a sentire le montagne incombere e a cercare la tua storia e la tua natura selvaggia…Magiche Dolomiti!!